Ospitò un ospedale, che curava gli appestati durante le epidemie. Fu in seguito adibita, come altre isole, a postazione militare. La sua superficie è di 2,53 ettari e conta fabbricati sviluppati per 8.400 m².
L'isola fu abitata inizialmente dai Padri Eremitani, che vi avevano eretto una chiesa consacrata a Santa Maria di Nazareth ed un ricovero per i pellegrini che andavano o tornavano dalla Terrasanta (1249). Date certe di insediamenti religiosi nell'isola anteriormente al sec. XV° non ve ne sono. I cronisti rinascimentali comunque concordano nel fissare al 1249 la costruzione della chiesa di santa Maria di Nazareth, epoca quindi che può essere considerata quella di primo insediamento sull'isola. Sullo scorcio del XV° sec. viene maturando a Venezia la necessità di fronteggiare in qualche modo le ricorrenti epidemie, con la prescrizione del bando di persone o merci provenienti da località sospette di peste, nonchè l'istituzione di un Ospedale di isolamento destinato inizialmente al ricovero degli appestati, ed in seguito alla contumacia di persone e merci provenienti dal Levante. Verrà prescelta a tal scopo 1' isola di S. Maria di Nazareth per motivi logistici, quali la vicinanza ai porti, la presenza di comodi canali d'accesso e l'isolamento da centri abitati.
In seguito (1423), su consiglio di San Bernardino da Siena, il Senato della Repubblica deliberò di destinare l'isola a ricovero di persone e merci provenienti da paesi infetti e di provvedere i ricoverati di vitto, medicine e assistenza. Sembra che il termine lazzaretto derivi proprio dalla chiesa di Santa Maria di Nazareth, con sovrapposizione del nome del patrono degli appestati, San Lazzaro. Le spese per la manutenzione dell'ospizio furono sostenute, nei primi sessant'anni, con una parte dei proventi dell'Ufficio del Sale, per passare poi sotto la gestione di un permanente Magistrato di Sanità, al quale si dovevano quei provvedimenti di precauzione, visite, controlli, quarantene.
Dal 1468, l'isola ebbe il compito di ricevere gli ammalati che, sospettati di essere contagiati, erano stati visitati nella nuova costruzione del Lazzaretto Nuovo (di cui parlerò dopo).
Già allora, l'isola era divisa in due da un canale, attraversato da un ponte: nella porzione più piccola vi erano un deposito di polvere da sparo ed un alloggio per i soldati di guardia (il casello); in quella maggiore, a forma di rettangolo, era situato l'ospedale vero e proprio, che aveva ormai inglobato l'insediamento monastico preesistente, inizialmente integrato con baracche e capannoni in legname, gradualmente sostituiti da edifici in muratura.
Gli edifici erano allineati sui lati di una piazzetta e di due cortili. Sulla piazzetta si trovavano le abitazioni del priore e del suo assistente, i magazzini degli attrezzi, il serbatoio dell'acqua e le gallerie dove gli uomini sospetti di contagio passavano la quarantena. Intorno al primo cortile, in origine il chiostro del convento, si trovavano le abitazioni dei provveditori generali e dei rettori veneti che tornavano in patria. Intorno al secondo cortile c'erano cento cellette per i ricoverati. Dietro ai fabbricati si trovavano dei prati e delle tettoie - separati una dall'altra da cancelli di legno - in cui si praticava l'espurgo delle merci a seconda delle varie contumace.
Nel 1564 l'ospedale fu allargato, interrando parte della laguna circostante. Nel 1586 viene costruita la cavana (cioè un ricovero per le imbarcazioni) sul rio di ingresso al complesso.
Dal 1846 al 1965 l'isola, come molte altre, passò alle autorità militari, prima austriache e poi italiane. Durante questo periodo ha luogo la demolizione di due ali del chiostro, della chiesa con il campanile, del parlatorio e di altri edifici.
Successivamente, il Lazzaretto Vecchio fu dato in concessione dal Comune di Venezia ad un gruppo cinofilo, per ospitare un ricovero per cani randagi.
Nel 2004 sono iniziati dei lavori di recupero, in previsione dell'allestimento di un "Museo della città di Venezia". Nell'occasione, gli scavi hanno portato alla luce fosse singole e comuni con oltre 1.500 scheletri di appestati, la cui analisi fornirà informazioni relative alla vita dei veneziani del Cinquecento.
Tra il 2004 e il 2008 ha conosciuto importanti interventi di restauro strutturali, nella prospettiva di una gestione e valorizzazione futura come nuovo “Museo della Città” con l’esposizione dei rinvenimenti archeologici effettuati a Venezia e in Laguna, in collegamento con il Lazzaretto Nuovo.
Dal settembre 2013 la Soprintendenza Archeologica del Veneto l’ha affidata all’Archeoclub di Venezia con compiti di vigilanza e fruizione pubblica (nel 2014, quattro le aperture straordinarie con centinaia di visitatori).
Oggi, con i suoi grandi edifici storici, le testimonianze pittoriche alle pareti, i suoi pregevoli manufatti lapidei, tra i quali le due vere da pozzo dei sec. XV-XVI, e data la sua magnifica posizione al centro della Laguna (di fronte a San Marco e alle isole di Poveglia, Santo Spirito, Sacca Sessola, La Grazia), il Lazzaretto Vecchio è particolarmente suggestivo e meritevole di essere visitato.
Il Lazzaretto Nuovo
L'isola del Lazzaretto Nuovo, invece, posta all’ingresso della Laguna, a tre chilometri circa a nord-est di Venezia, ha un'area di circa nove ettari e si trova all'inizio del canale di Sant'Erasmo. Ha avuto probabilmente fin dall’antichità una funzione strategica a controllo delle vie acquee verso l’entroterra, situata com’era lungo il percorso endolagunare che in epoca romana da Ravenna giungeva ad Altino. Reperti archeologici testimoniano la presenza umana già dall’età del bronzo, mentre il primo documento scritto risale al 1015: un atto notarile dove l’isola è chiamata “Vigna Murada”.
Dalla fine dell’XI secolo l’isola divenne proprietà dei monaci benedettini di San Giorgio Maggiore che edificarono una chiesa intitolata a San Bartolomeo. La “Vigna Murada” era circondata da saline. La produzione del sale nel Medioevo fu un’importante risorsa economica nella laguna Nord che aveva il suo centro principale a Torcello.
Nel 1468 con decreto del Senato della Serenissima fu istituito nell’isola della Vigna Murada un Lazzaretto con compiti di prevenzione dei contagi, detto “Novo” per distinguerlo dall’altro già esistente vicino al Lido (detto “Vecchio”), dove invece erano ricoverati i casi manifesti di peste. L’isola divenne luogo di “contumacia” (quarantena) per le navi che arrivavano dai vari porti del Mediterraneo, sospette di essere portatrici del morbo. Per rendere efficiente la struttura sanitaria, posta di fronte al porto di Sant’Erasmo, furono costruiti molti edifici. Nel 1576, racconta Francesco Sansovino, esso è “dotato di cento camere et (…) dalla lontana ha sembianza di castello”. L’aspetto è dovuto ad un centinaio di grandi camini alla veneziana di cui sono dotate le celle (“camere”), poste a ridosso del muro di cinta. Negli spazi interni vengono costruite grandi tettoie (“teze”) per lo spurgo delle merci: si usavano soprattutto fumi di erbe aromatiche, quali ginepro e rosmarino.
Per tentare di purificare l'aria dal morbo si accendevano fuochi di legno di ginepro che veniva fatto arrivare appositamente dall'Istria e dalla Dalmazia.
Sull'isola non potevano trovare posto tutte le persone che ogni giorno arrivavano a migliaia. Così il Senato della Repubblica autorizzò che le persone sospette o ammalate venissero ammassate su barconi ancorati nei pressi delle due isole (il Lazzaretto Nuovo e quello Vecchio). Vennero così approntate due o tremila barche di ogni tipo cariche all'inverosimile di contumaci.
Sansovino descrive questa sorta di girone infernale come «...un'armata che assedi una città di mare...»
Il principale edificio dell’isola, il cinquecentesco Tezon Grande , lungo più di 100 metri (il più grande edificio pubblico di Venezia dopo le Corderie dell’Arsenale), conserva ancora molte scritte e disegni originali, documenti straordinari sulle pareti che, attestando la presenza dei mercanti, dei “bastazi” (facchini) e dei guardiani del Magistrato alla Sanità, descrivono arrivi di navi e commerci (da Costantinopoli, Nauplia nel Peloponneso, Alessandria d’Egitto, Cipro …), sigilli e simboli, nomi di dogi e di marinai.
Nel corso del 1700 avvenne il progressivo abbandono dell’uso sanitario dell’isola. Durante il dominio napoleonico e sotto quello austriaco, fu utilizzata invece per scopi militari ed entrò a far parte del sistema difensivo lagunare (“Le fortificazioni”): le grandi arcate del Tezon furono chiuse per trasformare l’edificio in polveriera, in aggiunta ai due caselli da polvere già esistenti, la cinta muraria fu fortificata con feritoie, corpi di guardia, grandi bastioni in pietra d’Istria e terrapieni esterni. L’isola fu quindi collegata alla “Testa di Ponte” di S.Erasmo e alla batteria della Torre Massimiliana (oggi sede del Parco della Laguna Nord) che controllava l’ingresso del porto del Lido.
Usata dall’esercito italiano fino al 1975 e quindi dismessa, l'isola del Lazzaretto Nuovo è una delle poche isole abbandonate della Laguna di Venezia ad aver conosciuto una decisa azione di recupero.
Di proprietà demaniale e vincolata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, l’isola dal 1977 è in concessione all’Associazione di Volontariato “EKOS CLUB” che, nell’ottica della sua tutela e rivitalizzazione, organizza visite guidate, incontri, mostre ed eventi con particolare riferimento alle caratteristiche storiche e ambientali, alla cultura e alle tradizioni lagunari e marinare.
All’interno di un programma denominato “Per la rinascita di un’isola”, collaborazioni e progetti sono in corso con Enti ed Istituzioni, tra i quali in particolare l’Archeoclub d’Italia, con cui dal 1987 vengono organizzati i campi archeologici estivi, articolati in una serie di attività che fanno dell’isola un laboratorio sede di molte iniziative scientifiche, didattiche e di ricerca.
Nel corso degli ultimi anni sono stati raggiunti importanti risultati, come i restauri degli edifici storici a cura del Ministero Beni Culturali, gli interventi del Magistrato alle Acque, la realizzazione di un approdo Actv (con fermata “a richiesta” della Linea 13 Fondamente Nuove-S.Erasmo-Treporti), un moderno impianto di biofitodepurazione, gli allacciamenti Enel e Vesta. Interventi particolari sono in corso con il sostegno della Regione Veneto e dei Comitati Privati UNESCO.
Oggi il Lazzaretto Nuovo fa ormai parte del circuito museale cittadino: è inserito nel Sistema Bibliotecario Museale della Provincia di Venezia (SBMP), negli Itinerari storico-naturalistici (Progetto UE – O.2) e negli Itinerari Educativi del Comune di Venezia. Accoglie migliaia di visitatori ogni anno, tra cui molte scuole di ogni ordine e grado.
Conosce anche un uso governativo, ospitando il Deposito per materiali archeologici di provenienza lagunare della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto.
A seguito della collaborazione esistente con il Ministero Beni Culturali, con il Lazzaretto Vecchio (isola vicino al Lido e di fronte al Bacino San Marco, oggi in fase di restauro), nella prospettiva di Storia della Sanità e Antropologia, sarà una tappa importante del costituendo Museo Nazionale di Archeologia della Laguna e della Città di Venezia.
La vampira del Lazzaretto Nuovo
Tra la fine del 2006 ed il 2008 sono stati condotti degli scavi dal gruppo del dottor Matteo Borrini dell'Università di Firenze con il Laboratorio di archeopatologia per le indagini sulla peste, l'Archeclub Italia con il Gruppo Archeologico Spezzino.
Gli scavi hanno interessato la zona del cimitero dove le sepolture vennero fatte abbastanza caoticamente. Infatti nel Lazzaretto Vecchio esistevano fosse comuni preordinate nelle quali inumare i cadaveri dei morti di peste; al Lazzaretto Nuovo, pensato solo come luogo di contumacia per uomini e merci, nei momenti di emergenza le vittime del morbo furono seppellite disordinatamente. Poteva così capitare che per approntare nuove sepolture si andasse a scavare in un luogo dove già erano stati in precedenza deposti altri cadaveri.
Come deve essere successo al cadavere "ID 6" scoperto da Matteo Borrini, ritrovato con un mattone conficcato profondamente nella bocca al punto di spaccare denti e mascelle.
Si tratta del cadavere di una donna.
Ma cosa aveva fatto la poveretta per subire da morta questa terribile profanazione del proprio corpo?
Dobbiamo fare un passo indietro e pensare a quelle che erano le convinzioni e le credenze legate alla peste ed alle pandemie. Basta rileggere i "Promessi sposi" del Manzoni ai capitoli 21° e 22° dove troviamo, tra le cause di pestilenza, le «...emanazioni autunnali delle paludi...», l'opera degli untori, «...arti venefiche, operazioni diaboliche...» fino a quei medici che ne negavano l'esistenza avendo «...pronti nomi di malattie comuni per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso...».
Se queste erano le conoscenze che si avevano nel Seicento, si può immaginare quanto più scarse erano due secoli prima.
Il terrore per il morbo, a livello popolare, era sostenuto dalla fede: dalla credenza di un castigo divino che si scagliava secondo provvidenza e giustizia contro le malefatte dell'umanità, procurando dolori, sofferenze e morte ad espiazione dei peccati dell'uomo.
In Polonia, in particolare nella regione della Kashubia, già nel XIV secolo si era diffusa la credenza popolare dello Nachzehrer, un tipo di vampiro il cui nome può essere tradotto come "divoratore della notte" o anche "masticatore di sudario".
Il Nachzehrer sarebbe un "quasi-morto", un essere che non riuscirebbe a morire ma che contemporaneamente non riuscirebbe neppure a trasformarsi totalmente in vampiro.
Avvolto nel sudario dentro la tomba, in una specie di torpore, lo Nachzehrer masticherebbe la tela che lo avvolge, i propri vestiti e le proprie mani e, nel caso, anche eventuali cadaveri vicini. Secondo alcune varianti della leggenda, lo Nachzehrer sarebbe in grado di assorbire le energie vitali degli individui che gli sono vicini, fortificandosi fino a riemergere dalla tomba e diventare un vampiro.
La credenza si sviluppa a seguito dell'osservazione delle esumazioni di cadaveri relativamente recenti, come poteva succedere durante le pestilenze quando era necessario riaprire fosse comuni per seppellire nuovi morti.
Il cranio della donna ritenuta una "non-morta", o vampiro, o "Nachzehrer", del Lazzaretto Nuovo di Venezia, con il mattone conficcato in bocca per impedirle di nutrirsi e ritornare in vita.
A quel tempo si conoscevano le caratteristiche che assumeva un cadavere immediatamente dopo la morte (rigidità muscolare, raffreddamento), ma tutte le successive modifiche che subiva il corpo erano nascoste dalla sepoltura: infatti generalmente la riapertura della tomba avveniva dopo molti anni, quando il corpo si era ormai ridotto a scheletro.
Ma prima di diventare scheletro il cadavere subisce le trasformazioni legate alla decomposizione: i gas putrefattivi gonfiano il corpo, fuoriescono dei liquami, la pelle si stacca per epidermolisi (ad esempio dalle mani e dai piedi).
Ecco dunque come poteva apparire un cadavere seppellito da pochi mesi riaprendo una fossa comune per far spazio ai corpi di nuove vittime della peste.
Così tutti questi segni che venivano rilevati su questi cadaveri avvaloravano la credenza dei Nachzehrer: i sudari macchiati dai liquami corporei in corrispondenza della bocca, che a volte potevano risultare bucati per effetto dell'acidità, si adattavano al "masticatore di sudario". La pelle scollata dalle mani dava l'impressione che il Nachzehrer si fosse mangiato le mani. Il corpo deformato, ma non ancora divenuto scheletro, confermava la presenza di un "quasi-morto" che cercava di nutrirsi per fortificarsi e diffondere il morbo.
Questo è quello che dovette avvenire al Lazzaretto Nuovo di Venezia, per lo scheletro "ID 6" scoperto dall'équipe del dottor Matteo Borrini.
In un momento di crisi sanitaria, presumibilmente tra il XV ed il XVI secolo, durante lo scavo per una nuova sepoltura, nel cimitero del Lazzaretto Nuovo, i necrofori si imbatterono in una tomba recente.
Il corpo della donna con ogni probabilità non risultava decomposto ed aveva l'apparenza di un corpo integro, di un "non-morto". Per la pressione esercitata dai gas putrefattivi il corpo era gonfio: così quel gonfiore del ventre, magari unito a fuoriuscita di sangue dall'addome e dalla bocca, a macchie sanguinolente nel sudario, poté indurre i necrofori a credere di trovarsi davanti ad un vampiro che si nutriva del sangue degli altri morti per raccogliere le forze, uscire dalla tomba e propagare il contagio.
Era dunque necessario impedirgli di cibarsi. In altre tradizioni per far questo si ricorreva al classico paletto conficcato nel cuore, qui a Venezia invece si pensò, dopo aver tolto il sudario dalla bocca, di riempirla con della terra e di conficcare con forza un mattone nella bocca.
La donna, la "non-morta", il vampiro, non avrebbe più potuto masticare e nuocere.
E così fu fatto.
http://lacustodeditombe.blogspot.com/2015/07/108-il-lazzaretto-vecchio-il-lazzaretto.html
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