Foto: Reuters
Un imbuto chiuso, alle porte dell’Unione Europea. Si ferma lì, al confine tra Bosnia-Erzegovina e Croazia, la Balkan Route, una delle strade più trafficate dell’Est Europa, che non troverete segnata sulle mappe. E’ lì, in quella strettoia finale difficilissima da oltrepassare, che si affollano da anni migliaia di esseri umani d’ogni età, bambini compresi, in fuga da un passato peggiore del peggior presente e in cerca di un futuro ancora tutto da conquistare anche se dista soltanto pochi chilometri.
Arrivano dall’Afghanistan, dal Pakistan, da Siria e Bangladesh, molti anche dall’Iran, dall’Iraq. La “rotta” attraversa Turchia e Grecia (dove il governo di centrodestra continua a sospendere le richieste d’asilo) per poi risalire la penisola balcanica: Macedonia, Albania, Bulgaria, poi Serbia, Bosnia. Oltre no: oltre c’è la Croazia, dunque l’Unione Europea. Qualche passo più in là la Slovenia. Viaggi che durano mesi, anni, in condizioni proibitive. Viaggi che spesso sono destinati a non finire mai. L’obiettivo è soltanto uno: entrare in uno stato europeo dove la circolazione sia libera, senza frontiere, senza poliziotti armati che a ogni tentativo ti ricacciano indietro, mai con le buone, sempre con le cattive. Che ti spogliano, fisicamente, anche di quel pochissimo che ti porti appresso, siano soldi o un cellulare. E non importa se sei adulto o appena un bambino, se cammini da ore tentando di trovare un varco nelle montagne, scortato da passeur improvvisati, attraversando fango e cumuli di neve, magari indossando ciabatte o scarpe lise, se stai gelando di freddo, se sei stremato e affamato: il trattamento è sempre lo stesso. Si torna al punto di partenza, nei campi profughi, o accampati come capita, lì nei dintorni. Tanto tra pochi giorni si proverà di nuovo a passare quel confine. Le famiglie ormai lo chiamano “The game”, il gioco, per far digerire ai più piccoli la fatica e la paura. Ma non sempre c’è una famiglia a farti coraggio: Save The Children stima che sono almeno 50 i minori non accompagnati che attualmente si trovano in Bosnia, dormendo in ripari di fortuna, senza protezione alcuna.
Il sogno potrebbe chiamarsi Germania, Francia, Italia, Spagna, Belgio. Ma bisogna prima restare in vita. E non è semplice, ammassati come sono nei campi profughi allestiti all’aperto, dopo aver affrontato per mesi il gelo dell’inverno: Miral, Sedra, Lipa (tutti a ridosso del confine croato), Blazuj (il più grande, a sud del paese), Usivak (a ridosso della capitale Sarajevo). Ammassati in decine nelle tende, nei letti a castello, senza possibilità fisica di muoversi, senza spazio, senz’aria, con appena una stufetta a regalare un’idea di calore. Condannati alla totale inerzia fino al prossimo tentativo, fino al prossimo “game”. Preoccupa la situazione sanitaria: oltre al pericolo della diffusione del coronavirus (che avrebbe conseguenze devastanti) sono segnalati numerosi casi di scabbia. In molti campi le condizioni sono assai più drammatiche di quanto si possa descrivere: pochi servizi igienici, latrine all’aperto, spesso manca l’acqua corrente. La Croce Rossa locale e diverse associazioni umanitarie lavorano incessantemente per garantire pasti e un minimo di condizioni dignitose per le migliaia di rifugiati, moltissimi dei quali di religione musulmana. Caritas italiana e Caritas Ambrosiana hanno appena allestito nel campo di Lipa un refettorio riscaldato che può ospitare fino a 600 persone. Prevista anche l’installazione di due tende, una a uso sanitario, l’altra come moschea.
Frontiere e religioni: una doppia chiusura
Un’alternativa al campo di Lipa, nato come centro temporaneo estivo e per nulla attrezzato contro il rigore dell’inverno, peraltro semidistrutto da un incendio alla vigilia dello scorso Natale, ci sarebbe: a Bihać, 27 km più a nord, nel centro abitato, al chiuso, in una ex fabbrica di frigoriferi, un centro industriale chiamato Bira, convertito nel 2015 proprio in rifugio per migranti, con 200 container già allestiti e attrezzati in grado di ospitare 2500 persone. Ma ormai inesorabilmente chiuso: le autorità locali, spalleggiate dalla gente del posto, si oppongono alla sua riapertura. Non vogliono centri permanenti in città, non vogliono grane, né migranti, né musulmani. Come ha recentemente spiegato a Euronews un ex componente del Consiglio comunale: «Non abbiamo nulla contro queste persone, vogliamo solo riavere la nostra pace. Va bene aiutarli ad avere un tetto sulla testa e del cibo, ma non va bene lasciarli liberi di vagare senza documenti in ogni momento, entrare nelle case della nostra gente, rubare, danneggiare o aggredire i cittadini per le strade». Meglio fuori dunque, nelle campagne, o peggio tra le montagne, in mezzo al nulla, dove si vedono meno e non possono far danni.
Il problema dei migranti che percorrono la Balkan Route non è, ovviamente, solo un problema della Bosnia-Erzegovina, un piccolo paese, estremamente povero e ancora oggi, 25 anni dopo gli Accordi di Dayton, lacerato da profonde divisioni tra bosniaci musulmani (i “bosgnacchi”) croati e serbi, costretti a una complessa convivenza (un “labirinto etnico”, come lo definisce l’Ispi, l’Istituto per gli Studi di politica internazionale). Un paese certamente non in grado di far fronte da solo a una simile emergenza: l’agenzia dell’Onu “OIM” (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), ha stimato che soltanto nel 2020 sono stati registrati, in Bosnia-Erzegovina, 16.150 nuovi migranti (il conto totale, dal 2015, arriva a 71.230). In Serbia i nuovi arrivi sfioravano quota 40mila (qui i report europei aggiornati).
Ma serbi e croati non vogliono migranti tra i piedi, soprattutto se musulmani
E ciascuno dei 10 cantoni della federazione ha potere decisionale autonomo in materia, così da vanificare qualsiasi indicazione “nazionale” venga da Sarajevo. Così i migranti sono finiti nel vicolo cieco dei campi. Il presidente bosniaco di turno (è a rotazione tra i tre gruppi etnici) è il serbo Milorad Dodik che ha sì dato ordine all’esercito di allestire tende e migliorare le condizioni degli spazi esistenti, ma che non vuole assolutamente costruire nuovi campi più sicuri e attrezzati, sostenendo che comunque spetta all’Unione Europea prendersi carico del problema, dal momento che nessuno di quei profughi vuol fermarsi in Bosnia. E’ solo un transito. Poi bloccato dai militari croati perché non vogliono, per nessuna ragione, un’invasione di musulmani nel loro territorio.
Le contraddizioni dell’Unione Europea
L’Unione Europea non sembra avere le idee chiare (né regole adeguate) su come risolvere la questione. Perché da un lato mette mano al portafogli (poco meno di 90 milioni di euro spesi per il miglioramento dei campi di accoglienza, nel triennio 2018-2020, 75 dei quali gestiti attraverso l’OIM), ma dall’altro nulla fa per regolare, o ammorbidire, i metodi (le violenze) della polizia croata nei confronti dei richiedenti asilo. O magari per organizzare “corridoi” presieduti da personale dell’UE. «I respingimenti sono sempre illegali, violenti o meno, non importa», sostiene Nicola Bay, direttore del Danish Refugee Council. «Minano il diritto alla protezione internazionale. I respingimenti croati sono una conseguenza della politica dell’Unione Europea, volta a trasferire la responsabilità di proteggere le persone al di fuori dell’UE. È diventata una situazione in cui gli Stati membri ignorano, aggirano o violano regolarmente il diritto dell'UE e questo è diventato un modo standard di gestire i confini. Ci sono responsabilità: per gli Stati membri che non rispettano queste misure dovrebbero esserci conseguenze reali". Come illegali sono state giudicate, dal Tribunale di Roma, le pratiche di “riammissioni a catena” (sulla base di un accordo tra Italia e Slovenia del 1996, mai ratificato dal Parlamento italiano), dando ragione a un cittadino pakistano che era riuscito a raggiungere l’Italia, ma che è stato rimandato in Slovenia prima, in Croazia poi e infine in Bosnia, costringendolo a ripartire dal via. L’Alto rappresentante europeo per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha definito la situazione al confine tra Bosnia e Croazia “inaccettabile”, criticando le autorità bosniache per "non aver garantito una gestione efficace dell’accoglienza". "Ma questa crisi umanitaria – sostiene Borrell - ci ricorda anche l’urgente necessità di aggiornare la nostra politica comune in materia di asilo e migrazione". Uno strumento, per così dire, di pressione è la richiesta di adesione all’Unione Europea che Bosnia-Erzegovina, Serbia e Montenegro hanno già avanzato. "I Balcani occidentali possono avere un futuro nell’Unione Europea, ma dovranno fare i compiti», ha dichiarato lo stesso Borrell pochi giorni fa. «Per essere accettati dovranno soddisfare i nostri standard, come avere una magistratura indipendente e sbarazzarsi della corruzione".
di Andrea Gaiardoni https://ilbolive.unipd.it/index.php/it/news/strada-balcani-migranti-ue
0 commenti:
Posta un commento