Venezia come l’Adagio di Albinoni
Non avrei mai pensato di dover scrivere queste righe, quando vivevo a Venezia. Era ancora una città normale. Se così si può dire, perché Venezia non è una città come tutte le altre. È un miracolo d’ingegneria antica e della grande forza di volontà di quegli antenati caparbi e lavoratori che l’hanno fatta sorgere dalle acque, dalle velme della laguna, dal fango della palude, dalle tante isolette sparse in quel lembo di mare dall’azzurro verdastro.
Però, quando io ci sono nata, Venezia viveva e respirava una sorta di normalità quotidiana tipica di ogni città. Ci si svegliava, la mattina, sentendo le voci della gente oltre le imposte socchiuse, dei veneziani affaccendati che parlavano a voce alta nella corte e nelle calli perché si sentivano tranquilli, sicuri, padroni del loro habitat a misura d’uomo, dove si arrivava ovunque a piedi, dove le distanze sono sempre “cinque minuti”.
Si usciva a comprare il pane nel negozio di sotto, poco lontano c’era anche il salumiere, le pareti della bottega tappezzate di grandi foto a colori di famiglia, di quelle che fanno sorridere. Tutto si trovava a pochi passi, dovunque si poteva acquistare il necessario. C’erano il fruttivendolo, la farmacia, il macellaio, il negozio di alimentari che noi veneziani chiamavamo pomposamente “supermercato”, perché un supermercato vero non trovava posto nella piccola città della laguna. C’era addirittura un negozio di merceria.
Certo, d’estate chi abitava vicino a piazza San Marco era sommerso dalla folla dei turisti appena usciva di casa, nelle calli e sui ponti doveva farsi strada tra gomiti, sandali e magliette. Però poi, quando arrivava davanti all’antico molo di San Marco e vedeva lo splendore del palazzo ducale da una parte e quello delle procuratie dall’altra con l’isola di San Giorgio sullo sfondo, si sentiva in pace con l’universo intero. Com’è bella, Venezia. In inverno, per esempio, la basilica di San Marco e il palazzo ducale erano, allora, quasi vuoti. Ci appartenevano ancora.
Si poteva gustare la piacevole sensazione di camminare nelle sale immense e sentire l’eco dei propri passi sui marmi, ammirare i dipinti giganteschi dei grandi maestri che rappresentavano Venezia, la Serenissima, come una regina del mare bionda, ingioiellata e potente. Si sentiva il respiro della propria storia. E la notte? Durante la notte la città era un mare di silenzio. Giravano solo i gatti. Si attraversavano i campielli alla luce dei fanali, mentre la luce che giungeva dalle bifore dei palazzi si specchiava sulla superficie dei canali muti. Poi silenzio, sciacquio cadenzato dell’acqua contro le sponde delle barche attraccate alla riva.
C’era una volta. Oggi Venezia è sempre magnifica, e come potrebbe essere altrimenti? I suoi monumenti, le sue case sono sempre là. La geografia della laguna non permette grandi cambiamenti ed è bene così, perché un gioiello come Venezia è irripetibile. Alla faccia dei fake di Las Vegas. Ma vedere le grandi navi da crociera stagliarsi come un muro impenetrabile e infamante davanti alla bellezza della laguna, fa male al cuore. Fa male al cuore vedere come gli orribili giganti a dieci piani nascondano, deturpino e insozzino un gioiello in miniatura. Uccidono la vita sui fondali della laguna, lasciano i loro miasmi pestiferi ovunque, inquinando e distruggendo.
Business? Forse. Un affare per pochi che fa a pezzi una città di molti. E quando Venezia sarà definitivamente distrutta, chi potrà ancora sfruttarla per il suo business maledetto? Il turismo c’è sempre stato, a Venezia, lo sappiamo tutti. Ma era un turismo che lasciava spazio ai veneziani e alla loro vita quotidiana. Dov’è oggi un fruttivendolo? Dove si può trovare un panettiere? Per non parlare del mitico salumiere che, ormai, è diventato una figura leggendaria. Dappertutto solo imitazioni di vetri di Murano, maschere made in China. Un’invasione di ristoranti e bar, negozi di souvenir, al massimo qualche negozio di moda può ancora ricordare che la gente è sempre lì, che esiste e respira.
Da qualche parte i veneziani ci sono ancora, ma stanno diventando uccelli rari. I veri veneziani si vedono apparire in piazza per protestare contro le navi da crociera, e nessuno li ascolta. Protestano contro una situazione insostenibile che non gli permette di trovare un appartamento in cui vivere, perché adesso gli appartamenti vengono affittati, a prezzi esorbitanti, soltanto ai turisti. E nessuno li ascolta.
I veri veneziani imprecano contro il Mose, quel progetto inaugurato nel lontano 2003 che si è tradotto in un fallimento inquietante, miliardi buttati dalla finestra, paratoie arrugginite che al momento sono soltanto oggetti inutili e galleggiano ironiche e beffarde davanti alla bocca di porto del Lido. I veri veneziani protestano, e nessuno li ascolta.
I veri veneziani sono lì, a pulire la città dai rifiuti che ha lasciato l’acqua alta nelle case, nelle calli, nei campi, lungo le rive. Un’acqua alta che forse si sarebbe potuta evitare, se il Mose fosse stato debitamente in funzione. Se i soliti ignoti non si fossero distribuiti le mazzette fra loro, invece di pensare al bene della città e dei suoi abitanti. Ma dev’essere davvero così? Non è possibile cambiare, finalmente, questa situazione insostenibile? Tutto si può cambiare, i padri della Serenissima di un tempo lo sapevano bene e hanno avuto anche la volontà di farlo. Allora, rimbocchiamoci le maniche e cambiamo.
Ho sempre amato l’Adagio in sol minore di Albinoni. Malinconico, nostalgico. Ogni volta che lo sento, vedo l’acqua dei canali lambire i muri dei palazzi antichi coperti da alghe millenarie. Non avevo mai capito perché questa musica triste si sposasse così bene con la natura della mia città natale. Venezia non è triste, mi dicevo. Almeno, non sempre. Può esserlo talvolta in inverno, quando scende la nebbia e si sentono suonare le campane delle chiese immerse nel buio della sera. Ma durante la primavera e l’estate è tutta un sogno di colori pastello, un miraggio accattivante, una splendida fata morgana.
Oggi lo capisco. L’Adagio di Albinoni è il presagio di una fine incombente. La fine di un mito. Ma un presentimento non deve necessariamente diventare realtà. Anzi, può servire proprio a scatenare l’effetto contrario. Il fatalismo non trova posto nella laguna di Venezia, non è tipico della mentalità dei padri. Dunque, che cosa stiamo aspettando? Raccogliamo il messaggio e diamoci subito da fare, possiamo ancora cambiare le carte in tavola.
http://storia-controstoria.org/governo-ombra/venezia-come-ladagio-di-albinoni/
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