Le Alpi segnate dalle attività umane sin dall'Età del Ferro
Uno studio internazionale rivela come l’impatto antropico sull’ambiente alpino sia evidente già a partire da 2800 anni fa
La Grotta di Rio Martino è caratterizzata da formazioni stalattitiche e stalagmitiche formatesi in seguito alla deposizione del carbonato di calcio disciolto dall’azione delle acque meteoriche. Qui Eleonora Regattieri e la collega Ilaria Isola effettuano i campionamenti all’interno della grotta. Fotografia di Adriano Roncioni
La ricerca, coordinata dall’Università di Pisa, ha analizzato una colata stalagmitica proveniente dalla Grotta di Rio Martino, nelle Alpi occidentali del Piemonte. Le analisi condotte su questo eccezionale “archivio naturale” hanno consentito di evidenziare i segnali dell’impatto antropico sull’ambiente alpino negli ultimi 9.000 anni.
I risultati dello studio, appena pubblicato su Scientific Reports, confermano il collegamento fra l’instaurarsi delle attività legate alla transumanza stagionale all’inizio dell’età del Ferro con una maggiore vulnerabilità del suolo.
“Nella regione alpina - spiega Eleonora Regattieri*, paleo-climatologa presso l’Istituto di Geoscienze e Georisorse del CNR di Pisa - l’inizio dell’età del Ferro coincide con lo sviluppo delle tecniche casearie. La possibilità di conservare e trasportare il latte prodotto in estate coincide con l’inizio dell’utilizzo permanente dei siti di alta quota e lo sviluppo della moderna economia alpina, tutte attività che impattano sull’ambiente e soprattutto sul suolo”.
La grotta di Rio Martino, una delle più importanti del Piemonte, si trova nel comune di Crissolo (CN). Sorge a 1.530 s.l.m. sulle pendici della Rocca di Grane, lungo il versante destro del fiume Po. La grotta è formata da due rami, il ramo inferiore è lungo più di 500 metri ed è costituito da un complesso sistema di canali che terminano con la cascata del Pissai, alta più di 40 metri. Al di sopra si trova il ramo superiore caratterizzato da sale, pozzi e gallerie. La cavità ospita un anche un'importante colonia di chirotteri: al suo interno, infatti, sono state censite ben 7 diverse specie di pipistrello.
Nel periodo precedente all’età del Ferro, compreso tra 9.800 e 2.800 anni fa, la pressione antropica nei siti d’alta quota era scarsa e infatti le analisi geochimiche delle concrezioni di carbonato di calcio della grotta, confrontate con le analisi dei pollini di altri siti, dimostrano che l’erosione del suolo in quel periodo era strettamente correlata alle contrazioni naturali della vegetazione, legate a momenti di aridità in cui le precipitazioni era più scarse.
A partire dall’età del Ferro, 2.800 anni fa, i dati invece evidenziano un brusco cambiamento nella risposta del suolo, dove ad un aumento delle precipitazioni corrisponde una maggiore e severa erosione. Questa maggiore e inaspettata erosione si può spiegare principalmente con una degradazione dei suoli e della copertura vegetale, non tanto per cause naturali ma piuttosto per l’instaurarsi delle transumanze e dei pascoli alpini, e alle connesse pratiche di disboscamento iniziate nell’Età del Ferro e testimoniate dai pollini individuati in alcuni depositi lacustri vicini alla zona della grotta.
I depositi lacustri studiati rivelano nello stesso periodo una diminuzione delle specie arboree a favore di specie vegetali tipiche dei pascoli alpini come Urtica, una pianta che si sviluppa di preferenza in terreni ricchi di azoto, come possono essere pascoli, malghe e stalle.
“Il record di Rio Martino – spiega Giovanni Zanchetta, professore di geochimica presso l’Università di Pisa - suggerisce un profondo e precoce impatto delle attività umane sui naturali processi della cosiddetta ‘Zona Critica’, che nelle Alpi come altrove, è quella pelle che riveste il nostro pianeta, dalle acque sotterranee sino all’apice della vegetazione, e che tramite una rete di complesse interazioni tra le diverse componenti biologiche e geologiche determina la disponibilità di risorse che rendono possibile la vita sulla Terra”.
Un archivio naturale
Lo studio delle proprietà geochimiche e magnetiche della concrezione della grotta di Rio Martino ha consentito agli scienziati di collegare le informazioni locali sul suolo e sulla vegetazione ai parametri climatici che agiscono su scala regionale, compreso il regime idrologico.
“L'aspetto più interessante di questo studio è l’utilizzo degli speleotemi, tra i più potenti proxy data terrestri che consentono un eccellente inquadramento cronologico”, commenta Ivano Rellini, ricercatore del Dipartimento di Scienze della Terra, dell'ambiente e della Vita presso l’Università di Genova, “Contengono inoltre molte informazioni paleoclimatiche che si possono confrontare con altri archivi geomorfologici e vegetazionali su scala regionale in un’epoca, l’Olocene, in cui entra in gioco anche il fattore uomo”
Le proprietà geochimiche, come la concentrazione degli isotopi del carbonio e dell’ossigeno, e magnetiche contenute nelle concrezione calcaree delle cavità carsiche come Rio Martino, sono estremamente sensibili alle variazioni dei parametri climatici regionali e globali. Queste formazioni calcaree inoltre conservano altri indicatori geologici - come per esempio il contenuto detritico dilavato dai suoli - molto specifici che permettono di individuare le modificazioni che avvengono a livello dei suoli sovrastanti le grotte. Queste variazioni dello stato di “salute” dei suoli possono essere influenzate da diversi fattori, sia naturali che antropici, e la la loro individuazione consente di valutare e distinguere l’impatto umano sull’ambiente circostante. Il confronto dei dati provenienti dalle concrezioni con i dati provenienti da altri depositi lacustri, dagli archivi pollinici e dai siti archeologici permettono di ricostruire i paleoambienti, di individuare le variazioni climatiche naturali e di distinguerle dalle modificazioni ambientali introdotte dall’uomo, come il taglio dei boschi e l’introduzione di nuove coltivazioni.
“Come sappiamo bene l’attività umana trasforma gli ambienti e l'ecologia terrestre da migliaia di anni, un processo che negli ultimo secoli si è fatto sempre più imponente, fino a cambiare la composizione dell’atmosfera e influenzare il clima stesso del nostro pianeta - conclude Giovanni Zanchetta – Quando tutto questo sia cominciato e con quanta intensità sono domande che come ricercatori ci poniamo, anche nell’ottica di prevedere e mitigare i possibili cambiamenti futuri indotti dall’attività umana”.
*La ricercatrice Eleonora Regattieri è stata titolare di un contributo Early Career Grant della National Geographic Society.
http://www.nationalgeographic.it/scienza/2019/12/02/news/le_alpi_segnate_dalle_attivita_umane_sin_dall_eta_del_ferro-4630861/
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