Sull’isola di Flores, in Indonesia, tra le Molucche e Giava, il team del paleo antropologo neozelandese Michael Morwood ha realizzato nel 2003 una scoperta eccezionale. L’Homo floresiensis, un nuovo esponente estinto della specie umana, è apparso d’improvviso dal sottosuolo di una caverna facendo nuova luce sul Paleolitico e dimostrando, una volta di più, quanto vicine siano realtà e leggenda. L’Uomo di Flores, il piccolo “Hobbit” indonesiano, così battezzato per le sue dimensioni eccezionalmente minute, ricorda saghe e miti dell’antichità in cui si parla di draghi, giganti e…popoli di piccoli uomini. Un’atmosfera di favola circonda lo stesso luogo del ritrovamento: la grotta di Liang Bua, antro di scultorea bellezza immerso in un verde rigoglioso, in un vero paradiso naturale.
Tra “Ebu gogo” e scavi scientifici
Del resto anche le leggende locali narrano di una misteriosa razza umana di piccole creature che sarebbe stata avvistata proprio sull’isola di Flores, gli Ebu gogo. La popolazione indonesiana dei Nage descrive gli Ebu gogo come minuscoli esseri dal corpo peloso, abili camminatori dal naso piatto e la larga bocca, donne dal seno pendulo. Gli Ebu gogo avrebbero parlato un linguaggio proprio, incomprensibile, simile a un mormorio indistinto, e talvolta ripetuto le frasi dette dai Nage come giocosi pappagalli. Sorprendentemente i Nage sono convinti che i piccoli abitanti di Flores abbiano popolato l’isola sino all’arrivo dei portoghesi, vale a dire al 1600, anzi alcuni superstiti di questa razza fiabesca sarebbero stati avvistati anche durante il secolo scorso.
Nella prestigiosa rivista “Nature” si ipotizzò che in realtà gli Ebu gogo fossero una specie di scimmie. D’altra parte proprio da questa rivista sono giunte le voci autorevoli di alcuni studiosi che definivano l’Homo floresiensis un individuo della specie Sapiens affetto da malformazione. Evidentemente nessuno è infallibile. Il mito degli Ebu gogo affascina ancora oggi i cripto zoologi di tutto il mondo. Ora, dopo la scoperta dell’Homo floresiensis, viene da chiedersi se alle origini della leggenda non vi sia stato il ricordo arcaico di un passato perduto, l’eco di una presenza preistorica memorizzata da una tradizione antichissima, un mito che manteneva viva la memoria del piccolo Uomo di Flores.
Da sempre l’isola indonesiana attira archeologi, paleontologi e antropologi. Gli studiosi vi svolgono le loro ricerche sin dal secolo scorso. Il primo fu il missionario olandese Theodor Verhoeven che indagò a partire dalla metà degli anni Cinquanta sino all’inizio degli anni Sessanta, poi nel 1994 e 1997 Paul Sondaar scoprì utensili litici nella caverna di Mata Menge, nel bacino di Soa. Questi reperti furono datati a circa 700.000 anni fa e attribuiti all’Homo erectus. Ma la datazione era controversa, perché l’isola di Flores anche nel Pleistocene – epoca corrispondente alla datazione degli utensili– era circondata dal mare e quindi sembrava impensabile che l’Homo erectus fosse stato in grado di costruire imbarcazioni che tenessero testa alla navigazione marittima.
Come sempre in tali circostanze dibattute si attribuirono i manufatti all’Homo sapiens. L’unica specie umana che, secondo l’ottica del tempo, sarebbe stata capace di costruire un’imbarcazione e superare la barriera oceanica. Proprio per trovare conferme a questa tesi, si proseguirono i lavori di scavo sull’isola di Flores. Un team diretto da Mike Morwood e Thomas Sutkina riprese a cercare nella caverna di Liang Bua. E fece la scoperta del secolo. Nel settembre 2003 si portarono alla luce i resti di un piccolo individuo bipede che erano distribuiti in un’area di soli 500 cm quadri.
Dopo il ritrovamento del cranio, che fu denominato LB1, vennero alla luce altre ossa. Queste permisero di ricostruire uno scheletro quasi completo dell’Uomo di Flores. Prima datazione: 18.000 anni. Poco a poco emersero dagli scavi nella grotta i resti di ben 14 individui della medesima specie. La struttura originaria gracile e minuta ricostruita in base allo scheletro si aggirava sui 97 cm, la capacità cranica comportava appena 380 cm cubi. Ma se la corporatura e la piccolezza del cervello facevano pensare all’australopiteco, altre caratteristiche rimandavano invece alla specie Homo. Inizialmente la reazione in campo scientifico fu talmente confusa che, come abbiamo avuto modo di vedere più sopra, nella rivista “Nature” si tentò addirittura di identificare l’Uomo di Flores con un uomo moderno affetto da nanismo.
Il team australiano diretto da Thomas Sutikna dell’Università di Wollongong ha analizzato per otto anni i reperti ossei e gli strati di scavo che restituirono anche numerosi manufatti litici. I sedimenti sono stati datati con la termoluminescenza e con il metodo dell’uranio-torio. E la datazione iniziale è completamente rivoluzionata. Il risultato: le ossa e gli strati di terra in cui queste sono state trovate presentano un’età di 50.000 fino a 100.000 anni fa, gli utensili litici da 50.000 a 190.000 anni. Inoltre si è accertato che lo scheletro appartenente al cranio LB1 era quello di una donna di circa 30 anni d’età.
Dunque l’Homo floresiensis è molto più antico di quanto si era supposto inizialmente. La cosa si fa ancor più affascinante se pensiamo che 50.000 anni fa l’Uomo di Flores ancora si aggirava nell’isola del Pacifico e che recenti analisi sui resti di alcuni focolari rinvenuti nella grotta di Liang Bua e attribuibili all’Homo sapiens hanno portato a una datazione di 41.000 – 24.000 anni fa. Se dunque 41.000 anni fa l’Homo sapiens era giunto in quei territori e se le ultime tracce rinvenute finora suggeriscono che l’Homo floresiensis visse almeno fino a 50.000 anni fa, l’intervallo temporale che separa i due ominidi si restringe.
Non è da escludersi un prossimo colpo di scena, vale a dire che nuovi indizi spostino ulteriormente la datazione del Flores e avvicinino ancor più le due specie. Un’altra possibilità: se invece, come ipotizzano altri esperti, i focolari fossero opera del piccolo Uomo di Flores, allora questo ominide sarebbe vissuto sull’isola ameno fino a 24.000 anni fa e in questo caso un incontro fra le due specie sarebbe alquanto probabile. E qualora l’homo sapiens e l’Homo floresiensis si fossero incontrati, questo potrebbe aver dato origine alla leggenda degli Ebu gogo. Del resto diversi miti dell’antichità – come quello di Polifemo – risalgono al Paleolitico.
Un cervello come un’arancia
In ogni caso le caratteristiche fisiche peculiari dell’Uomo di Flores lasciarono aperto per anni il dibattito sulla sua giusta collocazione nel grande albero dell’evoluzione: scimmia o essere umano? I ritrovamenti successivi avvenuti nella grotta di Mata Menge, a circa 70 km di distanza da Liang Bua, permisero di ordinare lo strano Hobbit indonesiano nel posto che attualmente sembra essere il più appropriato: una delle ramificazioni dell’albero evolutivo della specie umana che si diparte dall’Homo erectus africano e poi, parallela alla linea dell’Homo sapiens, prosegue per millenni e improvvisamente finisce nel nulla. Dunque si tratta di un discendente dell’Homo erectus, il quale viveva in Indonesia già un milione di anni fa. Poi sparì dalla scena nel silenzio di una misteriosa estinzione, così come accadde all’Uomo di Denisova e all’Uomo di Neanderthal suoi lontani parenti.
Sono stati i sei denti e la mandibola scoperti a Mata Menge, appartenenti a un uomo e due bambini, a collocare definitivamente l’Uomo di Flores nella specie Homo. Dopo anni di analisi e comparazioni, oggi gli studiosi sono pervenuti a una conclusione unanime. Tanto più che i resti di Mata Menge, attribuibili a tre individui della specie floresiensis, erano molto più antichi di quelli della grotta Liang Bua, risalivano addirittura a 700.000 anni or sono. Oggi sappiamo che questi lontani parenti indonesiani della specie Homo floresiensis vissero da 700.000 fino a 50.000 anni fa, dunque per un lunghissimo periodo, così lungo da risultare pressoché inimmaginabile. Jean Jacques Hublin, direttore del Max Planck Institut di Lipsia, osserva:
“Non ho mai creduto che i resti dell’Homo floresiensis risalissero soltanto a 18.000 anni fa. Durante la sua diffusione sulla terra l’Homo sapiens ha favorito l’estinzione di ogni altra specie umana, come quella dell’Uomo di Denisova o dell’Uomo di Neanderthal.”
I piccolissimi ominidi presentavano nella dentatura le caratteristiche riscontrate sulle ossa dell’Homo floresiensis di Liang Bua e quelle tipiche dell’Homo erectus afro-asiatico. Ma l’Homo erectus non era altrettanto minuscolo. Al contrario, ad un’altezza media di 1,80 si accompagnavano alcuni esemplari africani eccezionalmente prestanti che raggiungevano 1,90 m di altezza. Com’è possibile, allora che i suoi discendenti insediati nell’isola di Flores fossero tanto minuti? Piccoli come elfi, come gli gnomi delle favole?
Sarebbe stata proprio la vita trascorsa sull’isola di Flores, in un microcosmo isolato dal resto del mondo e sotto l’influsso di particolari condizioni ambientali, a far sì che l’Homo erectus indonesiano nel corso dei secoli si integrasse nel nuovo habitat adattando la propria struttura fisica. Questa sarebbe stata la molla che avrebbe portato al nanismo insulare tipico della specie Homo floresiensis. Un adattamento all’ambiente naturale, in cui individui più piccoli meglio potevano sopravvivere. E che questa mutazione abbia avuto successo è un dato di fatto, poiché i piccoli uomini di Flores hanno continuato a popolare l’isola per più di 600.000 anni. Una cifra da capogiro.
Del resto la specie Homo non è la sola ad aver reagito al fenomeno di vita isolana con lo sviluppo del nanismo. Anche altri mammiferi hanno adottato la stessa tattica, basti pensare agli elefanti nani i cui resti ossei sono stati individuati, per esempio, in Sicilia. La mancanza di grossi predatori e la scarsità delle risorse alimentari possono condurre a tali conseguenze. Ancor più interessante e sbalorditiva della diminuzione della struttura fisica è di certo la riduzione della massa cerebrale, che doveva adattarsi a una scatola cranica di dimensioni inferiori. Il cervello dell’Homo erectus era, infatti, quasi tre volte più voluminoso di quello del piccolo Flores che si potrebbe paragonare per dimensioni a quello… di uno scimpanzé.
E la mutazione cerebrale individuata nell’Homo floresiensis rimane, al momento, un fenomeno unico nella panoramica dell’evoluzione umana. Una sorta di “regressione” dovuta all’adattamento all’habitat. Un dato di fatto di estrema importanza, perché collega un volume cerebrale esiguo e poco più grosso di un’arancia a delle capacità tecnico-culturali di tutto rispetto, come per esempio la fabbricazione di utensili e l’uso mirato del fuoco. A tal riguardo, non si può che dare ragione al paleo antropologo Peter Brown che, riferendosi allo scheletro di Homo floresiensis scoperto a Liang Bua, ha affermato: “Ci dimostra quanto poco sappiamo ancora sull’evoluzione umana.”
Poco sappiamo, è vero. Ma nel giacimento indonesiano di Mata Menge gli scavi continuano. Si cercano altri resti di Homo floresiensis, reperti che possano dare una risposta ai tanti interrogativi ancora aperti. Nel frattempo gli studiosi hanno ricostruito l’ambiente naturale in cui vivevano i piccoli uomini: una savana secca e calda, in cui gli ominidi indonesiani andavano a caccia di ratti giganti. Si pensa che vi fossero anche elefanti nani.
L’Homo erectus giunse dal mare
Dunque un‘altra specie umana che finì per essere soppiantata dall’Homo sapiens. Ma il dibattito si fa più acceso quando si giunge alla domanda critica: come raggiunse l’Homo erectus l’isola di Flores? Non certo a piedi. Aveva bisogno di un’imbarcazione, doveva per forza attraversare l’oceano. E questo è davvero un punto cruciale, perché molti studiosi si accaniscono da decenni a negare la possibilità che individui della specie Homo siano riusciti ad attraversare il mare prima del Sapiens. Invece gli indizi in questo senso si fanno sempre più numerosi e il piccolo Uomo di Flores li supera tutti, dimostrando che più di 700.000 anni fa l’Homo erectus raggiunse per via di mare l’isola indonesiana. Ne consegue che l’Homo erectus non solo aveva conquistato la padronanza del fuoco, ma anche quella delle acque.
L’archeologo australiano Robert Bednarik non ha problemi ad accettare questo modello. Pensa che l’Homo erectus, ominide dotato di un volume cerebrale da 900 a 1200 cm cubi e in grado di fabbricare utensili litici diversificati come raschiatoi, coltelli e asce e di controllare il fuoco, sarebbe giunto in Indonesia circa 1,8 milioni di anni fa. Per via di mare, magari a bordo di una sorta di zattera. Al contrario, l’antropologo australiano Colin Groves dissente e per giustificare le sue riserve si appiglia alle cause naturali e adduce la tettonica instabile delle isole vulcaniche dell’Indonesia.
Alle origini dell’arrivo dell’Homo erectus ci sarebbe stata un’eruzione. Questa avrebbe prodotto una lingua di terra che l’ominide poté comodamente attraversare a piedi, raggiungendo così l’isola di Flores. Di un altro avviso ancora è il paleo biologo Friedemann Schrenk dell’Università di Francoforte, il quale mette in discussione l’intero albero evolutivo. Di fronte all’evidenza della coesistenza di Homo erectus e Homo sapiens sull’isola di Giava, Schrenk dice: “Se l’Homo erectus visse in Indonesia ancora 27.000 anni fa, l’Homo sapiens indonesiano non può essere una sua evoluzione.” Anche qui ci sarebbe da discutere.
Come si vede, siamo di fronte a un problema molto complesso che non si risolverà di certo con la velocità di un colpo di spugna. In ogni caso i reperti dell’isola di Flores sono lì, tangibili e visibili. Parlano per la presenza dell’Homo erectus 700.000 anni fa e per quella del piccolo Homo floresiensis da 100.000 a 50.000 anni fa. Qui c’è poco da discutere. Almeno 19 chilometri di distanza separano la vicina isola di Sumbawa da quella di Flores. Questi devono essere superati in qualche modo e sicuramente non a nuoto. E se l’Homo erectus fu in grado di costruire imbarcazioni per raggiungere Flores, non si può nemmeno escludere che abbia raggiunto, prima dell’Homo sapiens, anche l’Australia.
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