Navi dei Compagni di Horus nella sabbia
Fu l’archeologo Frederick W. Green a scoprire la “tomba 100” di Hierakonpolis. Nell’inverno 1898-1899, in una necropoli dell’antichissima città egizia di Nekhen più tardi chiamata dai Greci Hierakonpolis, “città del falco”. Il cimitero era costituito da ben 150 sepolture e una di esse, situata nell’area sud-est, presentava un dettaglio particolare: le sabbie avevano preservato la pittura murale di una parete, una raffigurazione a colori dal significato sconosciuto che avrebbe suscitato negli anni a venire vivaci discussioni in ambito accademico e, di recente, anche fuori di esso. Il problema è il soggetto dell’affresco: grandi navi arenate nella sabbia, scene di conquista, prigionieri morti o incatenati. Chi erano questi navigatori dalla mazza facile? I Compagni di Horus?
Relegata in un angolo buio
Si potrebbe definire una “patata bollente”, questa raffigurazione di Hierakonpolis che ha causato infinite diatribe e i cui preziosi frammenti originali sono stati quasi nascosti, relegati in una sala al piano superiore del Museo Egizio del Cairo, lontano dalla vista della maggior parte dei visitatori. Assopiti in un angolo buio, dietro un vecchio vetro impolverato, in un corridoio di passaggio. L’egittologa Elise Baumgartel, che vide i resti della pittura di Hierakonpolis al museo cairota negli anni Sessanta del secolo scorso, osservò:
“I pochi frammenti dell’affresco al Museo del Cairo sono talmente scuri, che è difficile distinguere anche soltanto la pittura dal resto.”
Uno stato di conservazione non ottimale, un luogo di esposizione decisamente sfavorevole. Evidentemente la situazione non è cambiata. Chi non cerca intenzionalmente la pittura di Hierakonpolis, ha poche probabilità di notarla. Un po’ come la famosa “stele d’inventario”, incastrata fra una parete e una vetrina in una posizione talmente infelice, che si può individuare a stento, dopo aver girato e rigirato per un bel po’ nelle sale del museo alla ricerca di essa. Tesoro fra i tesori a mio avviso più importanti, quelli che magari non brillano ma possono fornire informazioni essenziali sulla nascita della cultura egizia, la pittura della tomba 100 di Hierakonpolis è quindi vittima del destino che accompagna tutti i reperti meno appariscenti: l’accantonamento più o meno consapevole nell’angolo del silenzio.
Eppure, quando decorava la tomba di questo signore sconosciuto appartenente alla preistoria egizia, l’affresco (ca. 3500 – 3200 a.C.) era molto importante, proprio perché l’artista aveva voluto immortalare un momento decisivo della storia delle Due Terre. Aveva voluto fermare per sempre, su quella parete funeraria, l’avvenimento traumatico della conquista e soprattutto un particolare che si rivela essere la nota dominante: le navi dei conquistatori. Ma dico subito, a scanso di equivoci, che questa è soltanto la mia modesta opinione personale, perché molti studiosi preferiscono interpretare la pittura in altro modo. Secondo alcuni rappresenta una scena di caccia – in questo caso non si capisce però che cosa c’entrino le navi – oppure la riscossione di tributi da parte dei primi signori delle Due Terre, o ancora una scena di trionfo.
In ogni caso, nessuna informazione concreta ci è giunta dal proprietario della tomba 100, il defunto, poiché i pezzi di valore del suo corredo funerario non erano più lì. Trafugati. Purtroppo Frederick William Green portò alla luce una sepoltura già saccheggiata dai tombaroli. A suo tempo l’egittologo scrisse:
“(…) la tomba è stata saccheggiata, le mura in situ presentano tracce di zappa e tutti gli oggetti di valore sono stati rimossi.”
Solo la pittura muraria era rimasta lì, a testimoniare l’importanza del morto eccellente. Green rimosse con cura i frammenti dell’affresco che fece trasportate al Museo del Cairo. Prima, però, aveva provveduto a realizzare una copia del dipinto in grandezza originale e questo si trova oggi al Griffith Institute di Oxford. Secondo le indicazioni di Green, la tomba fatta di mattoni crudi misurava 5,10 m x 2,24 m. All’interno, approssimativamente nel mezzo, si trovava una parete divisoria che, evidentemente, aveva la funzione di separare la camera mortuaria situata a nord da quella contenente il corredo funebre a sud. Non tutti gli oggetti che accompagnavano il defunto erano scomparsi. La lista dei reperti compilata da Green contiene recipienti di pietra e vasi, utensili di selce e conchiglie. Ma la vera ricchezza della tomba era l’affresco, un unicum nel panorama egizio predinastico e protodinastico.
Scene di caccia e morte
La pittura che occupava in lunghezza praticamente un’intera parete della tomba (parete est -A), realizzata sui mattoni intonacati, era suddivisa in due registri separati da una linea color rosso ocra: quello superiore con uno sfondo giallo ocra che rappresentava le sabbie del deserto e quello inferiore di un colore blu/verde scuro, a mio avviso simboleggiante l’acqua. Grandi navi dominavano la scena. Green scrive:
“Sagome di navi bianche, cabine rosse con una linea nera sul tetto. Figure umane rosse e bianche vestite dalla cintola in giù, capelli neri, occhi bianchi con pupilla nera (gli occhi erano tondi)”.
Interessante il fatto che, secondo il rapporto di Green, anche altre due superfici della parete divisoria erano dipinte e anch’esse erano divise in due registri: quello inferiore blu/verde scuro e quello superiore dominato da figure umane. Una di queste pitture, così l’egittologo, si presentava alquanto sbiadita e raffigurava una processione. I colori usati per dipingere la parete est, vale a dire l’affresco principale delle navi, erano giallo, bianco, nero, rosso e blu/verde scuro. È difficile dire se le differenti parti del dipinto rappresentino scene cronologicamente distanti le une dalle altre oppure raffigurino un unico evento. Del resto ciò, a mio avviso, ha poca importanza perché è probabile che esista un tema comune alla base di tutte le scene rappresentate: il dominio.
Il dominio di uomini e animali. Il dettaglio in alto a sinistra mostra un uomo con il bastone alzato nell’atto di comandare due cani da caccia; mentre nel dettaglio in alto a destra appare un cacciatore che cattura un torno nero con il lazo. Un particolare in basso a sinistra presenta poi un motivo caro all’arte mesopotamica: il signore degli animali. Un uomo nell’atto di domare due leoni che lo affiancano. Altri animali popolano l’affresco di Hierakonpolis: gazzelle, bovini, uccelli.
Ma gli uomini armati di mazza non minacciano soltanto gli animali. Un altro dettaglio in basso a sinistra mostra un uomo (apparentemente dal colore bianco) con il braccio minacciosamente alzato contro tre prigionieri dal colore scuro in ginocchiati, legati. Altri due individui in piedi davanti a queste persone, con i bastoni alzati, sembrano dare man forte all’aggressore. In basso, circa nel mezzo della pittura, altri uomini combattono fra loro. Uno di essi, stranamente dipinto con il colore bianco, ha ucciso la sua vittima dalla pelle scura rappresentata a testa in giù, con uno spruzzo di sangue che schizza verso l’alto. Accanto a questa scena, si vedono tre donne prigioniere, legate e in ginocchio. Non ricordano, queste rappresentazioni, il tipico gesto di Narmer e dei faraoni, quello del re che colpisce il nemico? L’atto distintivo dei Compagni di Horus?
Le sei navi nella sabbia
E poi le navi. Sono sei, cinque bianche e una nera. Quando ho letto la descrizione della tomba 100 fatta da Green e poi ho visto i frammenti dal vivo al Museo del Cairo, ho avuto un’intuizione. Quella riga che separa il grande affresco dallo sfondo ocra e la fascia dipinta in Blu/verde scuro non doveva avere soltanto valore ornamentale, ma anche un significato ben preciso. Era l’acqua. E le sei navi non erano raffigurate in acqua, bensì sulla sabbia. Navi giunte forse dal mare?
Molto più tardi, ai tempi dell’imperiosa regina Hatshepsut, si davano il cambio le spedizioni marittime dirette alla favolosa terra di Punt. Gli splendidi geroglifici di Deir-el- Bahari le raccontano. Sappiamo che le navi egizie di ritorno dalla terra di Punt gettavano l’ancora al porto di Quseir, sul Mar Rosso, poi erano smontate a pezzi e trasportate attraverso la via del Wadi-Hammamet fino alla città di Copto, l’antica Kift. Una volta arrivate a Copto, venivano nuovamente montate. Riprendevano così il loro viaggio, questa volta lungo il Nilo, verso la residenza reale, per trasportare le merci straniere sino al palazzo della sovrana.
Ovviamente il dipinto di Hierakonpolis risale a un’epoca molto più antica. Ma non può essere ugualmente che quelle sei navi fossero in secco sulla riva, appena rimontate, pronte a risalire lungo il fiume? L’ipotesi forse più illuminante sul significato dell’affresco fu formulata dagli archeologi francesi Jacques Vandier e Charles Boreux, i quali non esitarono a riconoscervi la scena di un’invasione di asiatici avvenuta presso Nekhen/Hierakonpolis, la Città del falco. Non per nulla si trattava proprio della città di Horus, un centro importante non lontano da Edfu, il luogo in cui, secondo i miti egizi, avvenne lo scontro fatale tra i Compagni di Horus e quelli di Seth.
Tutte e sei le navi dispongono di cabine, sui cui tetti sono visibili costruzioni arcuate che potrebbero essere servite all’applicazione di alberi oppure all’inserimento di remi. Una delle navi esibisce anche uno stendardo. Su tre delle imbarcazioni è ben visibile, nel mezzo, una sorta di rettangolo che potrebbe indicare la presenza di un’apertura per il comodo imbarco di passeggeri, merci o – perché no? – bestiame. Una delle navi bianche, la più grande, presenta sopra una delle cabine una costruzione a baldacchino che fa intravedere la sagoma di una persona seduta la suo interno. Viene subito da pensare a certe illustrazioni geroglifiche come quella sulla mazza di re Narmer, in cui si vede il re assiso all’ombra del padiglione. Ancora un elemento tipico dei Compagni di Horus. Quest’imbarcazione, per la sua forma e l’evidente presenza di timone e timoniere sulla destra, dev’essere stata una nave di legno e non di giunco, come le classiche imbarcazioni fluviali egizie. Si può ipotizzare lo stesso anche per le altre cinque navi? Giungevano tutte dal mare? Erano navi di conquista?
Continuo con la mia ipotesi: se sì, è forse per questo che i primi re aggiunsero alla propria tomba l’elemento della nave? Il monumento funebre di Horus-Aha presentava una nave di pietra. Lo stesso faraone Cheope fece affiancare da navi la sua imponente piramide di Giza. E se non si fosse trattato, originariamente, della simbolica barca del sole, bensì del ricordo di quelle prime imbarcazioni dei conquistatori, i Compagni di Horus, che giunsero alle sponde del Mar Rosso?
Già l’egittologo Walter Emery aveva puntato il dito sulle navi di Hierakonpolis relazionandole alle imbarcazioni raffigurate sul manico del coltello di Gebel-el-Araq. Un reperto di estrema importanza oggi conservato al Museo del Louvre. Lo splendido coltello d’avorio, scoperto nelle vicinanze di Nag Hammadi e datato intorno al 3300 a. C., è impreziosito da decorazioni di raffinata bellezza. Raffigurano uomini, animali… e navi. Su un lato dell’impugnatura troneggia un signore dall’aspetto spiccatamente mesopotamico, con copricapo asiatico, lunga gonna e folta barba, che doma due leoni. Sotto di lui, ordinati in diverse file, ci sono molti animali: grossi cani, gazzelle, leoni, una vacca. Si vede anche un cacciatore.
Ci troviamo ancora una volta di fronte al noto motivo tipico dell’arte mediorientale, il “Signore degli animali”, tema di un altro reperto dello stesso periodo, la Stele della caccia di Uruk. Questo manufatto di granito, che fino a qualche anno fa era conservato nel Museo Iracheno di Bagdad, mostra due cacciatori in azione. Entrambi sono vestiti esattamente come l’uomo del coltello di Gebel- el- Araq, portano il medesimo copricapo. Uno di essi doma un leone, l’altro scocca una freccia in direzione di un branco di leoni. Un chiaro influsso mesopotamico sull’arte preistorica nilota che, come abbiamo visto, è presente anche nell’affresco di Hierakonpolis.
I Compagni di Horus: signori egizi o mesopotamici?
Ma veniamo alle navi. Sull’altro lato dell’impugnatura del coltello di Gebel-el-Araq sono riportate scene di battaglia ordinate in cinque registri. I due registri superiori mostrano degli individui dalle teste rasate – oppure dai capelli molto corti – che combattono contro uomini dalla lunga chioma. I “calvi” sembrano avere il sopravvento sui lungo chiomati e, in ogni caso, contrariamente ai loro avversari, sono tutti armati di mazza piriforme. Secondo l’egittologo David Rohl, un tipo di arma che, contrariamente alla mazza discoidale, sembra essere apparsa in Egitto soltanto in un secondo tempo.
Il terzo livello raffigura un uomo dai capelli corti che trascina due navi con una fune. Si tratta d’imbarcazioni con prua e poppa alte, munite di cabina. Dalle imbarcazioni svettano due stendardi recanti un simbolo particolare, ricorrente nelle raffigurazioni mesopotamiche di carattere sacro: la luna piena poggiata sulla falce della luna crescente. Sia lo stendardo con falce lunare, sia la forma delle imbarcazioni, sia il particolare dell’ancora litica a poppa e della prua munita di rinforzo, sono tutti elementi di matrice mesopotamica. Sul quarto registro sono visibili dei cadaveri di nemici che galleggiano sull’acqua.
Sul quinto registro appaiono altre tre navi. Ma tali imbarcazioni si differenziano molto da quelle incise più sopra e possono essere egizie. Walter Emery scrive:
“Lo stile dell’impugnatura del coltello è sicuramente mesopotamico o addirittura siriano, la scena rappresenta una battaglia navale contro nemici stranieri, com’è rappresentata anche nella tomba di Hierakonpolis. In entrambe le raffigurazioni c’imbattiamo su due diversi tipi di navi: navi chiaramente egizie e imbarcazioni dall’aspetto straniero con alta prua e alta poppa, di certa origine mesopotamica.”
L’egittologo Toby Wilkinson ha dedicato anni di ricerca a un’area del deserto orientale, una zona situata tra l’antico porto costiero di Quseir e Kom-el-Amar. Qui, seguendo le vie dei wadi, ci s’imbatte in migliaia di petroglifi. Secondo Wilkinson, le incisioni risalgono almeno al 4000/3000 a. C. Molte di esse ritraggono delle navi. Ce ne sono di forme svariate, imbarcazioni che trasportano uomini e bestiame. Wilkinson pensa che i petroglifi del deserto siano l’opera di una popolazione seminomade. Queste genti si sarebbero spostate annualmente con le loro greggi dalla Valle del Nilo ai wadi.
In quell’epoca il deserto orientale soggiaceva a un clima diverso ed era una savana popolata di grandi animali come elefanti, ippopotami, gazzelle. Nella stagione estiva, quando la Valle del Nilo diventava secca e arida, le popolazioni abbandonavano le loro abitazioni provvisorie e si trasferivano con il bestiame nella verdeggiante savana orientale, spingendosi sino alla costa del Mar Rosso. Ma perché questi proto-egizi avrebbero dovuto rappresentare delle navi? A che gli servivano? Secondo l’egittologo inglese, gli artisti dei wadi avrebbero raffigurato le imbarcazioni con cui si spostavano lungo il Nilo. L’ipotesi di navigazione marittima predinastica, e ancor più il fatto che queste imbarcazioni possano essere giunte da un altro Paese, viene da lui scartata per mancanza di ulteriori reperti in tal senso.
Eppure le migrazioni dei popoli si perdono nella notte dei tempi. Da sempre l’uomo ha intrapreso viaggi e spedizioni in cerca di nuove terre, di nuove possibilità di caccia, insediamento e scambio. Perché le genti preistoriche che popolavano i territori intorno al Mediterraneo non dovrebbero essere state in grado di costruire imbarcazioni che solcassero i mari già nel V o all’alba del IV millennio a.C.? Nel Predinastico avevano luogo scambi commerciali tra Egitto e Libano. I reperti provenienti dalla “tomba U-j” della necropoli di Umm-el-Qaab parlano chiaro. I sovrani egizi non acquistavano soltanto vasellame dai libanesi, ma anche vino e gran quantità di legno di cedro per l’allestimento dei loro santuari, dei luoghi di sepoltura. Come avrebbero potuto trasportare il pesante legno di cedro e le centinaia di otri pieni di vino da un Paese all’altro, se non per via di mare?
La zona desertica interessata dai petroglifi, fra Wadi-Hammamat e Wadi-Abbad, si trova alla medesima altezza dei centri protodinastici di Edfu e Hierakonpolis, innalzati nella Valle del Nilo. Le popolazioni seminomadi in movimento dalla valle del Nilo alla costa del Mar Rosso furono spettatrici e vittime degli scontri armati degli dei. Videro giungere, un giorno, le navi dei seguaci di Horus. E forse fu proprio questo l’avvenimento traumatico che, immortalato nella tomba 100 di Hierakonpolis, divenne simbolo del potere di un defunto illustre, uno dei primi Compagni di Horus.
http://storia-controstoria.org/Mondo Tempo Reale
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