Le due piastre di un’antenna di tipo leaky wave, in grado di separare – un po’ come fa un prisma con la luce – le frequenze fino al terahertz. Crediti: Mittleman Lab / Brown University |
802.11. Chissà quante volte le abbiamo viste, queste cinque cifre. Probabilmente senza mai farci troppo caso. Chi le conosce sa che non si tratta del prefisso d’un numero telefonico a pagamento: è il codice d’un insieme di specifiche per le reti WiFi locali. Quelle che usiamo a casa, per intenderci, o in ufficio oppure in biblioteca, per collegarci a internet. Prefisso seguito da una o due lettere che indicano, fra le altre cose, la frequenza delle onde portanti con le quali vengono trasmessi i dati. Tipicamente, 2.4 GHz (è il caso, per esempio, dei router 802.11g) e 5.0 GHz (es. 802.11ac). Microonde, dunque. In grado di trasportare i nostri dati a decine di Mb/s.
A dire il vero, con particolari accorgimenti ci si può spingere ancora più in là, quanto a velocità di trasmissione. Ma se vogliamo andare oltre certi limiti diventa inevitabile aumentare anche la frequenza delle onde portanti. Fino a quanto si può arrivare? Ebbene, un dispositivo realizzato dai ricercatori della Brown University, descritto nell’ultimo numero di Nature Photonics, è riuscito a spingersi ben oltre le decine di GHz, arrivando a frequenze nell’ordine del terahertz (THz): vale a dire, in quella regione dello spettro elettromagnetico in cui le microonde, scendendo al di sotto del millimetro, cominciano a scivolare verso il lontano infrarosso.
Al momento non è nemmeno un prototipo: è piuttosto l’equivalente elettronico d’una concept car, quelle vetture pazzesche che ci fanno sognare ai saloni internazionali dell’auto ma che non vedremo mai su strada. Serve solo a dimostrare che sì, si può fare. Ma visto quello che può fare, il “solo” è quantomeno un understatement: il dispositivo attorno al quale stanno lavorando i ricercatori della Brown University promette infatti un miglioramento pazzesco della banda passante. La velocità delle nostre reti domestiche aumenterebbe di centinaia di volte, aprendo a scenari che è difficile anche solo immaginare.
«Sicuramente l’utilizzo di reti WiFi ai THz offre l’opportunità di scambiare una quantità di informazioni enorme. Il risultato di questa ricerca rappresenta un progresso tecnologico importante: permette di dividere un segnale al THz in differenti sotto-frequenze», spiega Fabrizio Villa, esperto di antenne e strumenti a microonde dell’INAF IASF di Bologna, al quale abbiamo chiesto un commento, «e quindi separare le informazioni in esso contenute. Un po’ come scomporre la luce in vari colori con l’aiuto di un prisma e carpire le informazioni, per esempio, solo nel colore verde».
Il “prisma”, in questo caso, si chiama multiplexer – o meglio, demultiplexer (i due lavorano in coppia: il primo fonde, il secondo separa). Ed è il sistema che permette di far convivere in un unico cavo il segnale di decine di canali televisivi. O di far passare molte telefonate lungo una sola una fibra ottica, contemporaneamente e senza che una voce si confonda con l’altra. La novità, nel caso del dispositivo della Brown University, sta nella tecnologia adottata, che consente al multiplexer/demultiplexer di funzionare, appunto, anche con onde portanti di frequenza elevatissima. Ciò che i ricercatori hanno messo a punto è una particolare antenna, chiamata leaky wave, formata da due piastre di metallo parallele, una delle quali con una fessura (vedi figura in alto). Ed è proprio da quella fessura che, come da una perdita (leak, in inglese) in tubo d’acqua, fuoriesce il segnale che ci interessa.
«In questo modo, se fai entrare nelle due piastre 10 frequenze diverse – ognuna delle quali potenzialmente in grado di trasportare un singolo flusso di dati – usciranno fuori con 10 diverse angolazioni», dice uno dei coautori dello studio, Daniel Mittleman, della Brown University. «Così le avrai separate. E questo è ciò che si chiama demultiplexing». Proprio come un prisma.
Ma c’è di più: lo spettro della banda passante destinato a ciascun canale cambia al variare dello spazio che separa le due piastre. Una caratteristica che può rivelarsi assai utile. «Se per esempio un utente ha improvvisamente bisogno d’un’enormità di banda», osserva Mittleman, «potrà sottrarla a chi in quel momento, sulla rete, ne può fare a meno, semplicemente variando in modo opportuno la distanza fra le due piastre».
Certo, per quanto entusiasmante, il sistema di multiplexing/demultiplexing è solo di uno dei tanti tasselli che occorrono per arrivare ai primi router in grado di lavorare fino al terahertz. «Non era mai stato fatto nelle microonde a frequenze così elevate, ben oltre quelle oggi in uso nelle reti wireless. In vista di un loro futuro utilizzo come apparati WiFi, si dovranno però affrontare eventuali problemi dovuti all’attenuazione del segnale», sottolinea infatti Villa, «che ne potrebbe limitare il raggio d’azione, e alla pericolosità dei campi elettromagnetici a frequenze e potenze elevate. Quanto a noi che ci occupiamo dell’osservazione del cielo, avremo forse un problema in più, rappresentato dalle possibili interferenze ai sensibilissimi ricevitori astrofisici».
http://www.media.inaf.it/
Blogger Comment
Facebook Comment