La Russia affronta l’Isis mentre l’Occidente sta a guardare
DI FRANCESCO MANTA
Kerry fa la voce grossa, ma sa che la Russia è l’unica in grado di salvare il Medio Oriente dall’assalto del terrorismo (e la faccia agli USA). In un momento di critica impasse per Washington, che non può tenere a bada le pressioni di Turchia e Arabia Saudita, ostili alla Siria, il Cremlino ha la soluzione a portata di mano: il ponte aereo per Damasco è allestito, e uomini e tecnologie militari russe sono pronti per dare sostegno al governo di Assad. La lotta al terrorismo di fabbricazione occidentale la conduce Mosca, generando imbarazzo tra le ormai ingiustificabili prese di posizione occidentali.
La Russia è l’unica che può fermare l’Isis. Chiacchiere da “caffè geopolitico” spesso reiterate, con maggiore o minore autorevolezza, da chiunque abbia una grossolana infarinatura di quello che è il cruento quadro di guerra nella Repubblica araba Siriana che, ormai da quattro anni, combatte strenuamente per difendere i propri territori dagli attacchi dei ribelli jihadisti, primi tra tutti quelli dello Stato Islamico. Bashar-al-Assad, il presidente nemico dell’Occidente, accusato in maniera invisa di aver impiegato armi chimiche contro il suo stesso popolo, è in realtà l’unico baluardo che ancor resiste in Medio Oriente; ma ormai l’esercito di Damasco, allo stremo, non è più in grado di schierare una efficace difesa contro gli attacchi dei ribelli fondamentalisti. È per questo che Putin ha ormai apertamente deciso di voler procedere all’invio di veri e propri contingenti militari, armi pesanti e, probabilmente, anche l’aviazione militare a supporto del legittimo governo siriano. Essenzialmente, nulla di nuovo: la Russia non ha mai creato particolari aloni di mistero sul supporto diplomatico, umanitario e tecnico fornito alla Siria negli ultimi anni nella lotta al terrorismo di matrice islamica, così come ribadito a RIA Novosti da Mariya Zakharova, portavoce del Ministero degli Esteri russo.
La nota stonata della disapprovazione americana giunge puntuale. Nel colloquio telefonico tra il Segretario di Stato americano John Kerry ed il suo omologo presso Mosca, Sergey Lavrov, avvenuto il 5 settembre, il primo si è duramente opposto ad un intervento militare russo nelle vicissitudini siriane, denunciando che tale intervento avrebbe soltanto perpetrato ulteriori violenze, con notevoli ripercussioni sull’ingrossamento delle fila di migranti che tuttora invadono i centri di accoglienza di tutta Europa. L’azione dissuasiva americana è stata portata avanti anche su altri fronti, primo tra tutti la chiusura dello spazio aereo greco al transito degli aeromobili russi che hanno creato un ponte aereo con la Siria, così da far giungere gli aiuti alle popolazioni locali e all’esercito di Assad. La diplomazia greca si è responsabilmente opposta alle pressioni di Washington, ma non è detto che sia in grado di resistere alle intimazioni a stelle e strisce. La Russia aveva richiesto in prima istanza tale concessione al governo di Atene, che non ha avuto difficoltà ad accettare ma, qualora le direttive NATO dovessero mutare, Mosca, come riferito da Interfax, è pronta a far riferimento all’Iran, piuttosto che alla Turchia. L’azione russa in Siria, che potrebbe rivelarsi decisiva per una svolta sul piano strategico, ha trovato una dura opposizione in Occidente. La posizione di Assad è fortemente attaccata anche da Parigi che, così come già compiuto in Libia, si dichiara pronta a bombardare il territorio siriano e portare a termine un altro eccidio di stato, reclamando la testa del presidente di Damasco così come già accaduto con il colonnello Gheddafi. Il solito pasticcio in salsa mediorientale che la politica estera attuata dall’Occidente ripropone ad ogni crisi. Tale scenario corrisponde ad una realtà di fondo ben precisa: gli Stati Uniti si trovano in una impasse diplomatica dalla quale non riescono, per il momento, a tirarsi fuori.
La gestione della crisi siriana da parte dell’amministrazione Obama è stata decisamente poco equilibrata. La coalizione anti Stato Islamico messa in campo da Washington ha attuato una strategia colabrodo: le azioni sferrate contro i gruppi ribelli si sono concentrate soprattutto nell’area di Kobane, verso il confine con la Turchia, territorio occupato dalle minoranze kurde, alleati degli USA, mentre nell’Est del Paese Isis è arrivato a 30 km dalla M5, l’arteria autostradale che connette Damasco agli altri centri della Siria, dopo aver strappato Palmira all’esercito regolare siriano. Washington ha la colpa di non aver mosso un dito per difendere il sito archeologico, onde dover giustificare l’azione di supporto a quelle truppe vicine al tanto odiato regime del terrore di Assad, che solo due anni fa l’amministrazione Obama voleva bombardare secondo le (infondate) accuse di utilizzo di armi chimiche contro il popolo siriano. Già all’epoca la Russia, per via diplomatica, aveva salvato la faccia a Washington e, qualora dovesse decidere di intervenire militarmente contro i ribelli, risparmierebbe agli americani un nuovo imbarazzo. Nonostante le ripetute proposte del Cremlino di formare una coalizione internazionale contro il terrorismo, pare che Kerry voglia proseguire su un terreno incerto ed accidentato, fatto di incoerenza e spavalderia. Non attendere alle pressioni della Turchia e dei sauditi nella regione sarebbe una matassa molto imbrogliata per l’America, ma tant’è che per non inciampare nuovamente nell’ostile territorio mediorientale, forse meglio assecondare il “male minore”?
Fonte: L’Intellettuale Dissidente
Tratto da: www.informarexresistere.fr
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