Lo Shamir e i suoi parenti

Oltre agli animali fantastici, dei quali le antiche tradizioni abbondano, tutti i miti parlano spesso e volentieri di varie piante dalle magiche proprietà, purtroppo di difficile identificazione perché citate con nomi diversi e descritte in modo ambiguo.
Il motivo è semplice: a differenza dagli animali favolosi, che compaiono sulla scena autonomamente, dotati come sono di esistenza e volontà proprie, le piante “prodigiose” si possono cercare, raccogliere ed utilizzare per gli scopi ai quali si crede siano adatte, e chiunque lo può fare.
Tutta l’antica farmacopea è basata su questo. Ma è ovvio che, se l'”iniziato” intende conservare il potere che gli deriva dai suoi speciali “filtri” o “pozioni” (d’amore, di morte, di forza o d’immortalità), deve mantenerne segreti non solo i procedimenti di preparazione, ma innanzitutto gli ingredienti, e nella fattispecie le piante che li compongono. Troviamo quindi una quantità di vegetali capaci di prestazioni eccezionali in ogni campo, ma sfortunatamente non riconoscibili, o per via di informazioni scarse e/o fuorvianti, o perché realmente ormai estinti e introvabili.
Tale era per esempio la misteriosa pianta subacquea che “ha spine come il rovo, come la rosa”, trovata da Gilgamesh in fondo all’Abzu (ma in seguito perduta), e che avrebbe dovuto restituirgli la svanita giovinezza. Oppure l’altrettanto enigmatica “pianta del parto” o “della nascita”, che avrebbe consentito ad Etana (secondo la “Lista reale Sumerica”, tredicesimo re di Kish dopo il Diluvio) di avere finalmente dalla sua sposa un erede, e per cogliere la quale – primo essere umano nella storia – quel sovrano volò fino in cielo sulle ali dell’aquila.
Ma moltissime altre sono, nelle leggende, le piante miracolose. E vedremo poi che con impressionante frequenza ad esse è associato un qualche volatile, dotato anch’esso di inusuali caratteristiche e spesso di grandi dimensioni. Nel sud dell’Iraq e nell’Iran occidentale, le tradizioni dell’antichissima religione dei mandei, o sabei, parlano appunto del grande uccello Simurgh, che ha profonde conoscenze di saggezza segreta e che possiede un elisir che guarisce tutte le ferite, purifica ogni sostanza, ringiovanisce il corpo, prolunga la vita e rende invulnerabili.
Nei miti iraniani quell’elisir viene chiamato col termine avestico di “haoma” ed è prodotto anche qui da una pianta, forse da una liana rampicante della famiglia delle Gnetacee, l’Ephedra, che cresce in cima ai monti o nelle valli più nascoste; ma potrebbe essere stato estratto anche dal fungo Fly-Agarico, allucinogeno usato dagli sciamani da 10.000 anni e letteralmente adorato come un dio (o era, magari più verosimilmente, alcool?).
L'”haoma”, che fortifica e dà poteri soprannaturali ma ha anche effetti intossicanti, viene custodito, in questa versione, dall’uccello Saena, che lo concede agli dei ed in qualche caso anche agli uomini, ma solo a quelli particolarmente meritevoli. Per gli indù è invece il mitico Garuda, mezzo gigante e mezzo aquila, che gestisce l’Ambrosia o Amrita, nettare inebriante o “soma” (in sanscrito; corrisponde all'”haoma”) importantissimo nei riti della religione vedica, che dà poteri superiori agli dei “asura” e li rende immortali.
Pure in questo caso, il “soma” è tratto da una pianta – generalmente identificata con una liana rampicante della famiglia delle Asclepiadacee – che cresce su di un albero, vicino al Monte Elburz dove vivevano gli uomini-uccello, noto solo a questi. E’ probabile che alla base di questo mito ci sia una antica origine comune con l'”albero della vita” della Genesi, che avrebbe reso gli uomini onniscienti, immortali e simili agli dèi.
Come si vede, l’àmbito geografico di diffusione di questa leggenda (o meglio corpus di leggende, che vede protagonista di un qualche “portento” un pennuto cui è affidata la custodia di una pianta prodigiosa) è assai vasto, spaziando dalle rive del Mediterraneo (attraverso l’Asia Minore, l’Anatolia e la Mesopotamia, fino alla valle dell’Indo) a quelle dell’Oceano Indiano. E non solo, poiché la ritroviamo perfino nelle lontane Americhe.
Quanto poi alla sua antichità, si perde nella notte dei tempi. Ma ciò di cui più in particolare volevo parlarvi sono i “parenti” dello Shamìr, anch’essi sparpagliati un po’ in ogni dove; e non solo nel Vecchio Mondo, giungendo fino al Giappone, bensì – inaspettatamente – pure nel Nuovo, in Perù, Guatemala, Messico, Bolivia, per non citare che gli esempi che ho potuto vedere con i miei occhi. E ora la cosa si fa ben più interessante, e dobbiamo dire che siamo molto fortunati, perché infatti abbiamo il vantaggio di poter disporre non solo dei documenti scritti che riportano favole e leggende, ma di antichissimi manufatti realizzati con tecniche riconducibili soltanto alle affermate proprietà dello Shamìr.
Tutti li conoscete.
Mura megalitiche fatte con blocchi di dimensioni mostruose messi in opera con precisione millimetrica, inumana. Minute, delicatissime incisioni su pietre di estrema durezza. Oggetti, in pietra altrettanto dura, lavorati come fossero modellati in creta. Senza attrezzi metallici, come voleva Salomone, poiché metalli adatti non ce n’erano. Ma andiamo con ordine. Una leggenda iraniana senza tempo narra, tra le altre cose, che il re Zal appena nato fu “esposto” dal padre ed allevato – guarda caso – dal “nobile avvoltoio” Simurgh, il quale in questo racconto ricopre anche (in occasione della difficile nascita del figlio di Zal: si parla nientemeno che del primo taglio cesareo della storia) il ruolo di ostetrico, chirurgo e perfino anestesista.
Ma ciò che qui più importa è che tanto Zal, una volta salito al trono, che la sua sposa “splendevano” per la presenza di un'”essenza divina”, chiamata “farr” o “khvarnah” (“Fortuna del Re” e “Gloria di Dio”), la quale permetteva di scavare le sostanze più dure, forgiare metalli e addirittura conoscere la natura di Dio. Senza di essa, tangibile simbolo dell’investitura celeste, un re non poteva regnare.
Sull’altopiano anatolico, a Catal Huyuk (la cui età di almeno 8500 anni è documentata, oltre che dalla datazione al carbonio 14, da un “murale” che rappresenta l’eruzione – avvenuta nel 6200 a.C. – su quella città del vulcano dalle due cime Hasan Dag), una cultura molto progredita, la quale già praticava la metallurgia del rame e del piombo, comparve all’improvviso: sorprendentemente, il minerale più usato, e trattato con notevole perizia tecnologica, era l’ossidiana, che nella “scala delle durezze” di Mohs occupa il settimo posto.
Vi pare normale? Ma quel materiale, importato dalle stesse zone, veniva lavorato circa a quell’epoca anche a Gerico dai natufiani proto-neolitici, e ancor prima (fin dal 10.000 a.C.) sui Monti Zagros, a Nimrud Dag, in Armenia, sul Lago Van. La finissima esecuzione di lavori in ossidiana è anche una delle più salienti caratteristiche della cultura che in Cappadocia, a partire dal 9500 a.C., costruì qualcosa come 36 città sotterranee articolate su 18-20 livelli e in grado di ospitare una popolazione da 100.000 a 200.000 anime.
Scavate nella viva roccia, le abitazioni (che i locali chiamano “camini delle fate”, poiché le credono opera degli “angeli caduti” e tuttora abitate dagli Jinn o dalle Peri ) sono collegate fra loro da una rete di tunnel alti anche più di due metri, e oltre a ciò sono aerate da numerosi condotti di ventilazione, lunghi molti metri e con un diametro medio di 4 centimetri.
Scavati come? Ma è soltanto qualche millennio più tardi, quando improvvisa poco dopo il 4000 a.C. esplose la grande civiltà del “Paese fra i due fiumi”, seguìta dappresso da quella egizia, che ebbe inizio in questa parte del mondo allora conosciuto quella straordinaria produzione di oggetti d’uso ma più che altro di opere d’arte in pietra, che ci lascia tuttora ammirati, ma anche perplessi e sconcertati per la sua incredibile accuratezza in rapporto agli utensili (o almeno a quelli a noi noti) di cui si presume l’impiego. Perché qui, signori miei, si sta parlando di incisioni – figure e scritte – delle dimensioni massime di un paio di centimetri, eseguite sul quarzo (durezza 7), sul diaspro (idem), sull’onice di pietre da sigillo o da ornamento, in gran parte riportate alla luce dagli scavi in Mesopotamia e in Egitto: iscrizioni il cui spessore a volte non supera 0,16 millimetri.
Mentre ci è difficile persino raffigurarci la misura e l’aspetto del morsetto che necessariamente doveva tenerle ferme durante il lavoro del bulino, è stato calcolato che quelle pietre debbono essere state lavorate con punte resistentissime da mm 0,12. Di che materiale?
E di che materiale erano fatti gli strumenti con i quali venne scolpita la statua in diorite di Gudea di Lagash, che ha più di 4000 anni? O la stele famosa del Codice di Hammurabi, di poco posteriore, dove il basalto nero è tutto coperto da una minutissima e nettissima scrittura cuneiforme che pare impressa nell’argilla o nella cera? Tutti questi manufatti e infiniti altri – meravigliosi nell’aspetto e di fattura perfetta – sembrano eseguiti con la massima facilità, come se la solida pietra fosse stata semplicemente plasmata, e non violentemente colpita con rozzi attrezzi primitivi, tenacemente scavata, levigata e lucidata per un tempo interminabile.
Parrebbe che quei materiali avessero subìto una lenta, silenziosa dissoluzione chimica, piuttosto che l’aggressione di un impatto meccanico. Un testo specifico (“Le pietre magiche”, di Santini De Riols) ci dice che per lavorare queste pietre destinate al culto veniva usato un “punteruolo consacrato”; ma non riesco davvero a immaginare di che tipo di attrezzo si trattasse. L’unico modo conosciuto per intervenire su materie di quella durezza è quello di scalfirle – con santa pazienza oppure, al giorno d’oggi, utilizzando altissime velocità di rotazione – con un arnese di forma adatta, fatto di qualcosa di ancora più duro.
Ma non esistono molte sostanze più dure di quelle sopra citate, anzi non ne esiste alcuna tranne il diamante che le vince tutte, ma che però a quel tempo non veniva ancora normalmente impiegato. La Bibbia in alcune delle diverse versioni che riportano l’elenco delle gemme del pettorale di Aronne cita, è vero, anche il “diamante”, ma la cosa è fortemente improbabile per vari motivi: benché ritenuta anch’essa carica di energie misteriose, questa pietra non era usata innanzi tutto perché la tecnica non aveva fino ad allora raggiunto (e non l’avrebbe fatto per un lunghissimo tempo ancora) il livello indispensabile per saperla tagliare; in secondo luogo, le pietre colorate piacevano molto di più del cristallino e incolore diamante, che dà ben poca soddisfazione all’occhio a meno che non sia adeguatamente sfaccettato.
E comunque, stiamo parlando del diamante non in quanto pietra ornamentale, bensì di un suo eventuale uso come strumento di lavoro: per cui, anche in questo caso, valgono le considerazioni di alto costo e di difficile reperibilità già sopra esposte. Tanto più se l’oggetto da lavorare era di grandi o magari grandissime dimensioni.
L’ingegner Pincherle, che di queste cose se ne intende, afferma invece che su quelle opere sono visibili i segni dello scalpello, che doveva essere di ottimo acciaio (strumenti in rame oppure in bronzo, qualora non si fossero sbriciolati sotto la pressione e l’attrito, avrebbero immediatamente “perso il taglio”, e avrebbero dovuto essere continuamente riparati ed affilati).
Abbiamo, però, un piccolo problema. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, al tempo di cui si parla non solamente non esisteva ancora niente di paragonabile a “un ottimo acciaio”, ma il ferro stesso (per quanto riguarda attrezzi ed utensili) era ben di là da venire. Gli unici metalli a quell’epoca disponibili, per quel che troviamo scritto e per quanto l’archeologia ci ha restituito, erano tutti metalli teneri (rame, argento, oro, piombo, stagno, o – nella migliore delle ipotesi – rame martellato e leghe di bronzo), inadatti alle lavorazioni richieste.
Ergo, a questo interrogativo tecnico non c’è risposta. E anzi, dobbiamo per di più retrodatare questo mistero ad epoche anche più remote, dato che a quanto pare le prime statue in diorite, eseguite da quelli che erano i migliori tagliatori di quei tempi, cioè gli ioni e i sardiani, risalgono all’epoca di Sargon il Grande di Accad, attorno al 2350 a.C. Che è poi, almeno secondo la cronologia ufficiale, più o meno il periodo in cui in Egitto furono erette le piramidi. Ma qui la datazione d’inizio di questo tipo di lavorazione sprofonda ancor più nel passato.
Perché le cose più mirabolanti le troviamo, fin dai primordi stessi di quella civiltà, proprio nell’antico paese del Nilo: una terra dove, a differenza di Sumer o Babilonia, abbondano sia le pietre preziose che, precipuamente, quelle da opera. “Civiltà della pietra”, la chiamano anche infatti. Dai siti di “Naqada” dell’oscuro e lontanissimo periodo predinastico (cultura gerzeana, 3500-3100 a.C.), dalle principesche tombe protodinastiche di Abidos, dai sotterranei della piramide di Zoser a Saqqara sono tornati alla luce quantitativi incredibili (più di 30.000 esemplari solo in quest’ultimo sito) di stupendo vasellame – integro o in pezzi – di svariatissimo disegno, e innumerevoli altri articoli, in ogni sorta di materiale litico.
Non solo i più trattabili alabastro, ardesia, scisto o calcare, ma diorite, quarzite, granito (minerale anche in seguito molto amato in Egitto), basalto e loro varietà. I vasi, le coppe e tutti gli altri recipienti rinvenuti, pezzi di grande raffinatezza, con pareti dallo spessore minimo, simmetrici, rifiniti e levigati in maniera ineccepibile, sembrano lavorati al tornio: cosa che si ritiene decisamente impossibile. Molte delle anfore – scavate ed a volte perfino incise all’interno non si capisce come – hanno un collo sottilissimo, elegantemente allungato, e un’imboccatura così stretta che non ci passa nemmeno un dito. Fra i reperti datati al periodo più antico c’è anche una lente di cristallo, talmente perfetta che sembra molata meccanicamente.
Il più antico nome di un sovrano ritrovato a Saqqara è quello di Narmer, che fu forse Menes, il leggendario unificatore dei due regni del Basso e dell’Alto Egitto: è inciso su di una coppa di porfido (avete presente il porfido? ci si fanno le pavimentazioni stradali). E di lì in poi – sparse ovunque – decine di migliaia di oggetti piccoli e grandi di tutte le specie, di statue, obelischi (alti fino a 73 metri, dice Plinio), stele, e centinaia di migliaia, anzi milioni di blocchi da costruzione e di rocchi di colonne, e chilometri quadrati di bassorilievi incisi, scolpiti, di geroglifici iscritti su quelle durissime rocce. Ora, secondo voi, gli egiziani amavano soffrire e rendersi la vita difficile?
Non avrebbero potuto scegliersi, per fare le loro opere d’arte, qualche altro sasso meno ostico? O forse usavano quei materiali perché in realtà non erano poi tanto impegnativi da lavorare – per loro, allora – quanto sembrano a noi oggi? In altre parole, può essere che conoscessero un altro metodo per tagliare, squadrare, dar forma alla pietra, un sistema diciamo così di pretrattamento che si avvaleva di un principio corrosivo, chimico, più che della forza bruta o dell’insistenza? (a me, per la verità, il discorso che “ma avevano tanto tempo a disposizione” è sempre sembrato una grossa sciocchezza). La cosa, date le loro profonde e vastissime conoscenze in ogni campo dell’alchimia, non dovrebbe stupire e non è nemmeno impossibile, come cercherò di dimostrarvi.
La tradizione, in effetti, afferma che i “sapienti” egiziani avevano messa a punto (a meno che non l’avessero ereditata o importata da qualche altra zona geografica) una speciale “mistura vegetale” in grado di disgregare superficialmente qualunque – sia pur durissima – roccia o pietra e di trasformarla in una sorta di malleabile pasta (quella sì, lavorabile con i normali strumenti in rame o in bronzo) la quale, una volta evaporato quella specie di “solvente”, si sarebbe ricompattata rendendo all’oggetto l’aspetto e la consistenza originari. Ad appoggiare questa tesi potrebbe esserci più di una prova.
Guardate, ad esempio, la precisione di ogni amorevole dettaglio delle sculture a tutto tondo in granito o in basalto, e ditemi se non sembra anche a voi che quei minuziosi particolari siano stati modellati con la stecca piuttosto che scavati a colpi di scalpello.
Lo stesso si può dire per la tecnica con la quale nei rilievi di Saqqara il fondo è stato mantenuto perfettamente piano (il che, lasciatelo dire a me, è una delle cose più difficili da fare), dove l’asportazione di tutto il materiale superfluo pare ottenuta livellando o spianando una sostanza cedevole anziché scheggiando con la sgorbia la dura pietra. Parlo però in prevalenza delle opere più antiche, e comunque di quelle più accurate, e presumibilmente più costose.
Infatti io penso che più tardi quell’arte andò perduta, o perché l’applicazione di quel metodo era divenuta eccessivamente onerosa, o per la cessata disponibilità di quella materia prima, o per un qualche altro motivo.
Tanto è vero che – come si può vedere – mentre agli inizi i simboli geroglifici aggettavano sui pannelli, in seguito verranno più semplicemente scavati nel loro spessore. E che molti dei rilievi successivi, rinunciando a qualsiasi pretesa di profondità, mostrano soltanto una grossolana incisione tutto attorno alle figure le quali, appena vagamente arrotondate ai margini, non emergono per niente dal fondo del quale sono allo stesso livello, per cui tecnicamente non si potrebbero nemmeno più chiamare bassorilievi. Ma c’è dell’altro.
Tutti sanno che la Grande Piramide, per citare solo quella, è stata costruita a secco, e che i blocchi che la compongono non sono legati con malta. E’ stato trovato però, fra un corso e l’altro dei blocchi e pure tra le giunzioni verticali, un sottilissimo strato di materiale inidentificato, del quale si sa tuttavia che contiene residui vegetali.
Era forse quel misterioso “solvente” che, consumando e livellando la superficie irregolare delle pietre, ne consentiva la perfetta sovrapposizione, agendo inoltre quasi come un collante? Possiamo escluderlo? Se fosse vero ciò che vi suggerisco, si potrebbe anche fare l’interessante osservazione che, in tal caso, quanto maggiore era il peso delle pietre sovrapposte, tanto più coerente e solida sarebbe riuscita la costruzione, per via della pressione esercitata che – con l’aiuto della reazione chimica – avrebbe fatto combaciare e, per così dire, cementato assieme quei massi semplicemente appoggiati l’uno sull’altro (come si sa, il peso medio dei blocchi di calcare della Grande Piramide è di circa 2,5 tonnellate, per non parlare di quelli granitici – il cui peso arriva forse a 200 tonnellate – della struttura interna, per la quale rimando agli studi di Pincherle).
Usando quel materiale, inoltre, sarebbero stati ben più agevoli di quanto si pensi l’estrazione ed il taglio dei blocchi in cava: un problema al quale tuttora non abbiamo saputo dare spiegazioni davvero esaurienti. Certo che quell’arte – come anche quella di movimentare e sovrapporre massi di peso ed ingombro immani -andò perduta, o venne comunque abbandonata quella tecnica. E come si spiegherebbe se no il fatto che, dopo il periodo di splendore della costruzione delle grandi piramidi in pietra, tutto quel che di “piramidale” ci rimane delle epoche più tarde sono soltanto dei miserabili e informi mucchi di mattoni semicrudi, che piano piano finiscono di disfarsi in polvere sotto lo spietato sole del deserto? Come a Nippur, come a Ur, regni di argilla.
Ma torniamo a noi, perché vorrei parlarvi ancora un momento di un solo ultimo esempio di ciò che, a parer mio, può essere stato realizzato unicamente con “qualcosa” che sembra essere fratello gemello del mio Shamìr. Abbiamo già parlato (nota 25) del cosiddetto “sarcofago” posto nella cosiddetta “camera del re” nel cuore della Grande Piramide (cosiddetta “di Cheope”, o Khufu) sulla piana di Giza, perciò del suo aspetto sapete già ogni cosa. Il problema che a me interessa però è solamente quello della realizzazione tecnica di questo oggetto.
Per la precisione, della realizzazione del suo interno, poiché di quel sarcofago, o vasca, o cassa che sia (e può aver contenuto, per quel che ne sappiamo, qualunque cosa: oggetti o spoglie mortali), ciò che è più incomprensibile è il come sia stato svuotato.
A meno di non accogliere l’ipotesi di Flinders Petrie, il quale in questo caso suggerisce l’utilizzo di seghe tubolari, sempre in bronzo, in cui erano incastonati diamanti, e che avrebbero dovuto estrarre da quel masso “carote” di granito fino a creare lo spazio interno.
Purtroppo però Petrie suppone anche che quelle seghe o quei trapani (manuali, s’intende), per poter penetrare la pietra, avrebbero dovuto ruotare o ad una velocità assolutamente impossibile da raggiungere con i mezzi (noti) dell’epoca, applicando inoltre all’attrezzo una pressione o carico di una o anche due tonnellate. Lascio a voi giudicare.
Tra le sabbie della piana di Giza sono stati trovati sia fori cilindrici in blocchi di granito che “carote” della stessa pietra (ma non sappiamo se corrispondente a quella del “sarcofago”), che sono state analizzate dal tecnico utensilista Christopher Dunn: all’indagine microscopica questi pezzi mostrano un doppio solco elicoidale eseguito con un trapano – o sega tubolare – che procedeva nella roccia con una velocità di penetrazione media di 2,5 millimetri ad ogni rotazione. Si tenga presente che un trapano moderno, che utilizza le tecnologie ed i materiali più avanzati, compie 900 giri al minuto e penetra nel granito ad una velocità di mm 0,05 per ogni giro.
Il che vorrebbe dire che i trapani egizi di 4500 anni fa lavoravano a velocità qualche centinaio di volte superiori rispetto a quelle dei trapani attuali. Mossi da quale energia?
Dunn è convinto che la risposta si trovi nell’uso di sconosciuti (e perduti) strumenti a ultrasuoni, che utilizzavano vibrazioni ad alta frequenza: ma non vorrei prender posizione a questo proposito, poiché non ho difficoltà ad ammettere la mia ignoranza su tali argomenti. Quello che invece mi ha colpito di più è un dettaglio degli esami condotti da Dunn, dal quale risulta che l’antico trapano a mano tagliò il quarzo che costituisce il granito più velocemente del feldspato, più tenero, che ne è un’altra componente.
E vedrete fra poco che, ai fini dell’individuazione di questo “gemello” dello Shamìr, questo è il particolare più importante. Da tutto quanto sopra detto risulta chiara la convinzione sia di Flinders Petrie che di Dunn che siano stati usati particolari macchinari, ma di ciò non ci sono prove. Io penso invece che non di velocità e pressione si trattasse, né di ultrasuoni: il trapano avanzava veloce perché la pietra non opponeva resistenza; e mi pare più che evidente, in ogni caso, che quel tipo di lavorazioni in generale venisse effettuato trattando la pietra secondo le modalità della plastica anziché secondo quelle della scultura propriamente detta.
Ci troviamo di fronte, a quanto pare, a un bell’esempio di applicazione del “rasoio di Occam”: ma io credo che la soluzione più semplice – e quindi la più probabile – sia proprio quella che vi propongo. Ma non pensiate – già ve lo avevo anticipato – che quel particolare procedimento fosse prerogativa ed esclusivo monopolio delle culture del Vecchio Mondo quale noi lo conosciamo.
Tutt’altro. Dallo Yucatan a Tula, dall’Ecuador al Titicaca, molte culture precolombiane forniscono spettacolari esempi di scultura ed architettura nei quali sono presenti le stesse caratteristiche: produzione di manufatti realizzati, in pietra, senza nessun uso di strumenti metallici, quasi fossero stati plasmati nell’argilla. Piuttosto che di oggetti di dimensioni contenute – ma pure le statue e gli splendidi rilievi maya, olmechi, toltechi, aztechi, preincaici e inca, come le enigmatiche andesiti incise, le cosiddette “pietre di Ica”, fanno parte dello stesso mistero – si tratta qui però prevalentemente (sto parlando, nella fattispecie, degli impressionanti monumenti del Perù) di costruzioni megalitiche, edificate con blocchi di granito che – a mio avviso – sarebbe stato impossibile assemblare con qualunque altro metodo.
E non voglio qui entrare nel merito di come diavolo facessero ad estrarre, trasportare e sollevare massi del peso di varie decine e in qualche caso persino di alcune centinaia di tonnellate (problema posto ugualmente dalle consimili strutture egizie, siriane ed altre), limitandomi ad arrendermi di fronte all’evidenza che – in qualche modo – ci riuscivano: l’ipotesi meno sballata che mi viene in mente è forse proprio quella, già citata, dell’uso – anche qui – di frequenze ultrasoniche, ma l’argomento esula sia dal tema che stiamo trattando che, come ho detto in precedenza, dalle mie competenze. Per cui lascerò che se ne occupi qualcuno più autorevole di me.
Ma sovrapporre e incastrare a secco l’uno con l’altro quei massi incredibili è altrettanto arduo da comprendere. La mente si smarrisce nell’osservare i macigni ciclopici, con un numero terrificante di angoli (fino a quaranta) della più varia apertura, che compongono le stupende, perfette mura di Sacsayhuaman, di Ollantaytambo, di Cuzco, di Machu Picchu, collimando in maniera così perfetta che, come si sa, nelle commessure non c’è spazio “nemmeno per un foglio di carta”.
Un lavoro del genere in teoria richiederebbe infinite misurazioni, tentativi, prove: cosa impensabile considerandone il peso e il fatto che furono messi in opera senza l’uso di animali da lavoro, né di ruote per argani.
Sembrano invece, quelle pietre (la cui forma non squadrata è la migliore dimostrazione della grande padronanza delle tecniche antisismiche usate), fuse insieme da una qualche forza misteriosa, schiacciate e compattate dal loro stesso peso l’una contro e sull’altra a mo’di enormi cuscini fino a riempire ogni spazio e interstizio fra loro, come se invece che dure rocce fossero ammassi di morbida mota. O trattate, appunto, con una sostanza corrosiva che ne “condizionò” le superfici di contatto, se non la struttura stessa. Impressione che deriva pure dalla loro faccia esterna, sempre come leggermente “gonfia”, arrotondata, liscia come se fosse stata rifinita semplicemente raschiando via tutte le asperità insieme al materiale in eccesso.
D’altronde, questa non è affatto una mia fantasia. In parallelo con i miti e le leggende di àmbito eurasiatico e mediterraneo sopra riportati, anche qui viene fatto riferimento a una non meglio identificata sostanza in grado di ammorbidire la pietra e renderla lavorabile. Ma non sono le sole tradizioni popolari a parlarne, bensì anche autori nostri contemporanei.
L’esploratore Percy Fawcett, ad esempio, in un passo di “Operazione Fawcett” dice infatti che gli inca, ereditando le fortezze e le città edificate dalla razza che li aveva preceduti, le restaurarono servendosi delle medesime tecniche costruttive (e cioè di quel “solvente”). E racconta poi un episodio in cui un esperto minerario statunitense, che lavorava nelle Ande del Perù centrale a 4.500 metri di altezza, trovò in una tomba preincaica una giara di terracotta ancora piena di liquido. Quel liquido, versato incidentalmente su di una roccia, dopo circa dieci minuti ne era stato assorbito, “e la roccia era diventata molle come cemento bagnato, come se la pietra si fosse sciolta a guisa di cera sotto l’effetto del caldo”.
L’archeologa Mirella Rostaing, dal canto suo, ne “I misteri dei mondi” riporta una conversazione da lei avuta con uno sciamano nei pressi del lago Titicaca a proposito di un tipico cespuglio locale detto “ghacre “. La pianta, che somigliava ad un “rampicante orizzontale” e che manipolata diveniva molliccia e appiccicosa, aveva corroso come un acido buona parte degli stivali dell’archeologa, che ci aveva camminato in mezzo.

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Mondo Tempo Reale è il blog che dal 2010 vi racconta le notizie più incredibili, strane, curiose e divertenti: fatti imbarazzanti, ladri imbranati, prodotti assurdi, ricerche scientifiche decisamente insolite.
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