L'evoluzione umana raccontata dal DNA mitocondriale

© Jurgen Ziewe/Ikon Images/Corbis
L’uomo non africano si separò da quello africano tra 62.000 e 95.000 anni fa. Lo afferma un nuovo studio sul DNA mitocondriale di alcuni reperti paleontologici che permette di confermare la cronologia recente dell’evoluzione umana così come emerge dallo studio dei fossili. Sono così smentiti alcuni recenti risultati basati sulla stima delle mutazioni che intervengono da una generazione all’altra nel DNA nucleare e che volevano retrodatare tutte le tappe fondamentali della nostra storia filogenetica
La storia evolutiva dell’uomo raccontata dal DNA dei fossili è corretta. Lo afferma un nuovo studio coordinato da Svante Pääbo, del Dipartimento di Genetica evolutiva del Max-Planck-Institut per l’Antropologia evoluzionistica a Leipzig, in Germania, che, sulla base dell’analisi del DNA mitocondriale di una decina di reperti paleontologici ben conservati, smentisce alcuni recenti risultati, basati sul confronto di sequenze genomiche di padri e figli, che volevano retrodatare tutte le più importanti tappe dell’evoluzione umana.
In termini genetici, la differenza tra due specie che hanno un antenato in comune può essere valutata contando le sostituzioni a carico dei nucleotidi, “i mattoni elementari” di cui sono costituite le molecole di DNA. Conoscendo la frequenza con cui si accumulano queste sostituzioni e postulando che la frequenza sia costante, è possibile definire una sorta di “orologio molecolare” con cui stimare quanto tempo fa si sono separate filogeneticamente due specie o due popolazioni.
Questo orologio viene periodicamente “calibrato” quando si rendono disponibili reperti fossili con DNA recuperabile. Purtroppo però la scarsità di questi reperti è tale da rendere poco affidabile l’orologio molecolare. Per esempio, nel caso dell’essere umano e dello scimpanzé non esiste un fossile che sia unanimemente considerato come il più recente antenato comune. Per questo motivo, il tasso di mutazione del DNA nucleare e mitocondriale è attualmente al centro di un acceso dibattito.
L'evoluzione umana raccontata dal DNA mitocondriale
© dieKLEINERT/Corbis
Recenti sequenziamenti del genoma di padri e figli hanno permesso di stimare il tasso di sostituzioni che si accumulano nell’arco di una generazione, dette sostituzioni “de novo”, garantendo una calibrazione dell’orologio molecolare teoricamente più affidabile di quella basata sui fossili. Il valore ottenuto però è sorprendentemente basso: circa la metà rispetto al tasso ottenuto dai fossili. Basandosi su questo nuovo valore occorre rivedere tutte le grandi tappe della storia evolutiva dell’uomo, retrodatando eventi come la divergenza del genere Homo dallo scimpanzé, della specie H. sapiens dall’uomo di Neanderthal e dall’uomo di Denisovan, e infine anche delle grandi migrazioni umane.
Dato che la stima della velocità con cui si è accumulato un certo numero di sostituzioni è dimezzata, in sostanza, il tempo di divergenza è all’incirca doppio. Per esempio, la separazione delle popolazioni non africane da quelle dell’Africa occidentale sarebbe da collocare tra 90.000 e 130.000 anni fa, e non 60.000 anni fa, come stabilito da passate ricerche.
L'evoluzione umana raccontata dal DNA mitocondriale
Teschio di Neanderthal (© Stefano Bianchetti/Corbis)
In quest’ultimo studio, Pääbo e colleghi hanno analizzato sequenze complete o quasi di genoma mitocondriale provenienti da 10 esseri umani moderni. I reperti hanno una  datazione sicura, effettuata con il metodo del carbonio-14, e sono distribuiti in un arco temporale di 40.000 anni. Queste sequenze sono state utilizzate come “punti di calibrazione” per stimare in modo molto preciso il tasso di sostituzione mitocondriale.
Secondo quanto si legge nell’articolo apparso su “Current Biology”, le stime dei tempi di divergenza tra i diversi rami filogenetici umani così ottenute sono in buon accordo con quelle risultanti dalle “vecchie” calibrazioni fossili e archeologiche. In particolare, la separazione delle popolazioni non africane da quelle africane avvenne tra 62.000 e 95.000 ani fa.
Nonostante le incertezze sperimentali, il metodo consente di ottenere validi limiti superiori alla datazione degli eventi di separazione tra le popolazioni e di smentire così le retrodatazioni delle tappe dell’evoluzione umana fatte sulla base delle mutazioni de novo del genoma nucleare.

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