Come spesso è accaduto nella storia, le scoperte più interessanti e rivoluzionarie sono nate da semplici intuizioni. Anni di studio e di ricerca trascorsi tra intere notti su antichi testi da tradurre ed interpretare, sotto gli effetti di caffè e nicotina, e week end in esplorazione sul campo incuranti di freddo, pioggia o caldo afoso, per poi trovare l’illuminazione di un’idea in quella solitaria ed insignificante frase in un libro o piuttosto in una fotografia distrattamente scattata da turisti domenicali.
E’ da questa considerazione in apparenza così “profana” che scaturisce una delle più controverse visioni di una realtà forse creata ad arte da chi voleva celare ben altre verità, come nel caso degli Etruschi: un popolo vittima della “damnatio memoriae” dei Romani prima e del Cattolicesimo dopo.
La nostra intuizione, comunque suffragata da un estenuante lavoro di ricerca, nasce da semplici ed empirici quesiti:
- è accertato che nell’area italiana compresa tra Capua (antica Velthurna) e le attuali province di Roma, Viterbo, Frosinone, Lucca, Grosseto e Livorno, la popolazione etrusca raggiungesse i 3 milioni di abitanti, riuniti in una confederazione o lega, che gli stessi Etruschi chiamavano “Nazione”, come dedotto dall’Elogio Funebre di Laris Pulenas del 200 a.C.. Come è dunque possibile che la tradizione attribuisca ad Enea la fondazione di Roma, essendo sbarcato sulle coste laziali con (forse) poche centinaia di compagni?
- Le più antiche leggende narrano che Enea in fuga da Troia, appena sbarcato si diresse subito nell’Alto Lazio, nel porto di Regisvilla (nei pressi dell’attuale Tarquinia), come avesse conosciuto sin da principio la meta ultima del suo viaggio. La più nota Lavinio, fu infatti edificata solo successivamente dal figlio Ascanio. Perché l’eroe troiano giunse proprio in quel luogo alla corte del Re Etrusco Tarconte? Esistono prove di suoi approdi in Puglia, in Calabria, in Campania…. eppure, sceglie una città ben specifica.
- Analogamente ad altre storie raccontate, compresa quella di Gesù Cristo, esistono alcuni “buchi temporali” nella cronologia etrusca: si passa dalla cultura poco più che primitiva dei Villanoviani (abitanti autoctoni degli stessi territori) ad un’organizzazione federale assolutamente moderna ed evoluta come quella Etrusca, con un salto se non di tempo, certamente di cultura. Com’è avvenuto questo passaggio? I Villanoviani si evolsero nel giro di pochi decenni, furono assorbiti da una civiltà superiore e straniera, oppure rappresentarono una sorta di casta inferiore, come accadeva con gli autoctoni egiziani?
Con il tempo, abbiamo imparato che le imprecisioni cronologiche, le molteplici versioni riportate della medesima vicenda e la confusione sui nomi dei relativi protagonisti, sono chiari sintomi di un artefatto storico atto a cancellare o modificare qualcosa di scomodo. La tradizione etrusca, ricchissima di manufatti, pitture ed incisioni, non poteva affidare la propria immensa cultura alla sola tradizione orale, come invece asseriscono alcuni archeologi contemporanei. Ma sappiamo bene che il terreno più fertile dove seminare una nuova versione dei fatti è rappresentato da una iniziale “tabula rasa” dei documenti scritti.
Plutarco, nella sua “Vita di Numa” descrisse le vere origini della cultura romana rivelate dalla ninfa Egeria ad un sacerdote della sabina Curi: in vista della morte, egli dispose che tali scritti fossero seppelliti per sempre accanto al suo corpo. Probabilmente questi testi dovettero rivelarsi particolarmente “eretici”, se i posteri decisero di disseppellirli e bruciarli definitivamente.
Dionigi di Alicarnasso ci narra che il re etrusco Tarquinio il Superbo attorno al 520 a.C. introdusse a Roma i “Libri Sibyllini”, testi profetici, ritualistici, oracolari ed astrologici di origine greca (ma sono in molti a sostenere fossero antiche pergamene etrusche poi tradotte), rinchiudendoli nel tempio dedicato a Giove Capitolino (sulla sommità del Campidoglio).
La leggenda vuole che un’anziana donna li offrì al re Tarquinio sotto forma di 9 rotoli dietro il pagamento di una somma di denaro considerevole. Questi, diffidente nell’acquistare qualcosa di cui ignorasse il contenuto, tentennò. La donna bruciò 3 dei nove libri, offrendone 6 allo stesso prezzo; all’ennesimo rifiuto, bruciò altri 3 libri. Tarquinio il Superbo quindi comprò i soli tre libri rimasti al costo dei nove iniziali. L’anziana donna, dopo aver ceduto la parte restante di un sapere ancestrale, scomparve nel nulla, dando origine alle leggenda secondo la quale essa fosse proprio la Sibilla Cumana.
A prescindere il profondo significato simbolico della leggenda, i Libri Sibyllini furono da subito considerati “intoccabili”. Uno dei custodi (duumviri), Marco Aurelio, solo per averne ricopiato alcune profezie, venne giustiziato con una morte orribile: cucito in un sacco e gettato a mare.
Anche in questo caso, con l’avvento del Cristianesimo, quest’opera unica subì una sorte nefasta: Stilicone, nel 400 d.C. ne ordinò la distruzione.
Stessa sorte è toccata ai testi detti della “Disciplina Etrusca”, come i “Libri Hauruspicini”, i “Libri Fulguratores”, i “Libri Rituales”, i “Libri Acherontici” ed i “Libri Fatales” ed “Ostentaria”.
Quali segreti potevano giustificare un tale azzeramento culturale e la necessità di riscrivere la storia “a tavolino”? Certamente qualcosa di talmente sconvolgente secondo i canoni del tempo, da restare appannaggio di pochissimi eletti; qualcosa che poteva addirittura non limitarsi alle origini dell’Impero Romano, ma che avrebbe coinvolto il nascente Cristianesimo, se non addirittura le stessa genesi dell’Umanità conosciuta...
IL DILUVIO DI OGIGE, ATLANTIDE ED I PELASGI
“Nulla ha di fisso e costante il mondo,
se i giri osserviamo delle cose;
La cieca e instabil Dea così dispone
E tutto va precipitato al fondo.
Tutto volge Fortuna sottosopra
e ognor fa nascer le vicende istesse,
né si dà ma che d’essa allegra cesse
dal crudo gioco e dall’ostil sua sopra.
Quel popol che fu visto al ciel la testa
superbo alzare un dì, del reo destino,
del tempo struggitore ora meschino,
sotto il fatal peso oppresso resta.
Puon soffrir solo, e disfare gli anni,
anzi i secoli ancor l’opre d’ingegno,
contro cui nulla puonno e il fiero sdegno
del veglio edace e di Fortuna i danni.
Tutto rimane, e finchè sol lucente
il cielo schiarirà, la terra e l’onda,
rimarrà intetto ognor ciò che feconda.
Ai papiri affido l’umana mente.”
(Aurem Opus Antiquitatum Italicarum)
Occorre andare al 1788 per trovare le teorie più affascinanti circa un’origine “alternativa del Popolo Etrusco a firma del noto Don Gianrinaldo Conte Carli.
Parliamo prima di ogni altra vicenda o ipotesi, di un secondo –e molto più vicino- “Diluvio Universale”, detto “di Ogige”, avvenuto circa 4000 anni fà, particolare che ci costringerebbe a retrodatare molte delle teorie archeologiche e antropologiche oggi accettate.
I segni dell’ultima Grande Glaciazione (terminata 4.000 anni prima) erano ancora evidenti nelle aree polari. In un periodo presumibilmente compreso tra il 5000 ed il 4000 a.C. si verificò un disgelo improvviso e repentino, oppure uno straordinario innalzamento delle maree (entrambe causate forse dal passaggio di meteorite, come ci tramanda Diodoro…).
Consideriamo che è stato calcolato già nel XVIII secolo che un corpo celeste che si avvicinasse alla Terra ad una distanza di 72mila chilometri, alzerebbe il livello delle acque anche di 12mila piedi (3657 metri circa), con variabili dovute ovviamente alla massa.
La maggior parte delle terre emerse furono quindi inghiottite da una massa di acqua inimmaginabile nel volgere di poche settimane.
La grande ondata di piena entrò attraverso lo Stretto di Gibilterra, sconvolgendo la geografia del bacino Mediterraneo. La datazione di fossili di crostacei e conchiglie nonché la presenza di ardesie sulle molte zone collinari italiane né confermerebbero la veridicità.
Il mare coprì per lungo tempo molte aree quindi, con il suo lento ritiro diede origine all’attuale fotografia geografica, comunque differente da quella primordiale. Molte alture restarono separate della terra continentale, divenendo isole ed arcipelaghi (“…la natura delle cose cangiò d’aspetto…”-Plinio).
L’evento apocalittico sterminò una gran parte delle popolazioni esistenti ma altre, dopo essere rimaste in mare per mesi, approdarono sulle alture che il loro procedere alla deriva via via gli poneva davanti.
In questo contesto si inserisce il mito di Gilgamesh, figura per molti versi identica al biblico Noè, al Noha dei Maya, al Topi azteco, all’Yima persiano ed al Nu-wah cinese.
Nel 1696 nelle campagne vicino Roma venne ritrovato un vaso, raffigurante proprio il diluvio di Ogige con uomini ed animali che riparavano in una nave, utilizzato per le celebrazioni delle “idroforie”, delle festività comuni a tutto il bacino Mediterraneo in cui si rievocava la grande inondazione.
Abbiamo quindi una situazione di neo-Genesi, individuabile attraverso un parallelo con la mitologia, all’epoca di Ercole Egizio, nel 4690 a.C, a cui vengono appunto attribuite le Colonne d’Ercole.: un quadro di civiltà primordiale (ma già piuttosto evoluta) con culti e tradizioni molto simili se non comuni, che si trova improvvisamente ad essere “rimescolato” e trapiantato in nuove terre da civilizzare, ripartendo da zero.
Queste genti riportarono comunque la propria cultura di origine (spesso incentrata sul culto di Saturno) che, con il passare dei secoli si modificò secondo le peculiarità delle aree geografiche colonizzate: con un po’ di fantasia potremmo vedere dietro a questi eventi l’interpretazione di una metafora come quella della “Torre di Babele”.
In Italia, questi popoli vennero classificati dalla storia come autoctoni, cosa giusta nella terminologia ma inesatta qualora volessimo analizzarne il passato remoto. Le difficoltà e le divergenze incontrate –ad esempio- per stabilire l’origine degli Etruschi, nascerebbero proprio da questa confusione iniziale. Essi erano autoctoni della penisola italica ma al contempo discendenti di altri popoli sparsi nel Mediterraneo: discendenti forse di un'unica stirpe comune ad altri ceppi culturali e linguistici.
Antioco Siracusano sostiene che la denominazione di “Pelasgi”, indichi proprio questi antichi esuli di altre civiltà che, attraverso il mare si diffusero in nuovi territori prendendone le caratteristiche (Umbri, Ausoni, Siculi, Liguri e Tirreni provenienti da Oriente e dall’Egeo; i Coni da Sud; Veneti, Cignei, Fetontei, Sardini –anche se Tacito li descrive consanguinei degli Etrusci- e Orobi da Nord).
Tra le coincidenze tese ad avvalorare questa ipotesi, c’è l’uso di tutte le popolazioni pelasgiche di dividere il territorio in 12 parti (città, aree, regioni o “città-stato”, come nel caso degli Etruschi).
Il Carli, sulla base della coincidenza dei miti comuni a tutti i popoli antichi, pone il diluvio di Ogige all’origine dello stesso disastro di Atlantide, una delle terre da cui provenivano questi popoli erranti del mare; la terra da cui nasceva soprattutto la loro comune conoscenza di base, un sapere che forse aveva radici ancor più antiche della stessa Atlantide che ne era custode.
Molti popoli nel mondo raccontano di aver avuto origine da antichi avi provenienti dal mare e fuggiti dalla propria terra natale sconvolta da un cataclisma:
- gli Atzechi da Aztlan;
- gli Olmechi da Atlaintika;
- i Vichinghi da Atli;
- i Celti da Avalon;
- i Fenici ed i Cartaginesi da Antilla;
- i Berberi da Atarantes;
- gli Irlandesi da Atalland.
Platone sostenne, sulla base di quanto appreso da Solone in Egitto, che Saturno (una divinità comune a tutte le genti prima citate) “…condusse dall’Atlantide popoli e colonie…”. Nello stesso periodo, Giano Re accolse, nei territori ascrivibili all’attuale Lazio, “…i nuovi ospiti dall’Altantide…” o Saturnini. Le terre che videro la mescolanza di queste nuove culture, vennero chiamate proprio “Saturniae”.
Il Trogo sostenne che “…italiae cultores primi, Aborigenes fuere, quoram Rex Saturnes, inaque Italia regis nomina Saturnia appellata est…”. Platone, nel Timeo, sulle Memorie d’Egitto, scrive: “…Saturno… che tal nome aveva il fratello d’Atlante, il quale venne nella Tirrenia…”.
Quindi, il Saturno che guidò i superstiti del popolo atlantideo alla salvezza non era un dio, bensì un condottiero di stirpe reale, che poi venne confermato re nelle nuove terre.
Altra particolare coincidenza risiede nel fatto che tutti i primi invasori di Africa e Grecia, seppur appellati con nomi di dei ed eroi, erano comunemente chiamati “Figliuoli dell’Oceano”, come testimoniato da Omero, allo stesso modo con cui gli Atlantidei (o Titani) erano definiti “generati dal mare”.
Tutto ciò potrebbe farci azzardare l’affascinante ipotesi che le similitudini costruttive e culturali riscontrate in molteplici luoghi del Globo, America compresa, avessero veramente un’unica origine.
Infatti, nella moltitudine di popoli erranti per mare dopo il diluvio, quelli con le maggiori conoscenze avrebbero sicuramente imposto il proprio sapere agli indigeni incontrati.
La necessità di un ritorno alla normalità dopo il diluvio è testimoniata anche dalle imponenti strutture di scolo scavate da antichissimi popoli, con l’obiettivo di bonificare le aree pianeggianti. Molte aree della stessa Italia, per molti sono state caratterizzate da territori paludosi ed insalubri.
Dionigi di Alicarnasso, assicura che Oenotro, figlio di Licaone, giunse in Italia e trovò solamente un paese deserto ed incolto ed abitato esclusivamente sulle sommità dei monti.
Ci è stata data testimonianza che nella zona di Piacenza le paludi furono presenti fino all’epoca di Annibale (“…che nell’attraversarle perse un occhio…”).
Giustino, ai tempi della prima guerra con gli Sciti, descriveva una tale quantità di territori paludosi da impedire l’accesso all’Egitto.
Furono molte dunque le culture antiche a testimoniare questo grande cataclisma alla base della diffusione di una seconda civiltà, alcune anche rimarcando la propria origine antecedente (gli Arcadi, ad esempio, sostenevano che il loro popolo fosse più antico della Luna).
Ad avvalorare la tesi di un meteorite come causa scatenante del Diluvio di Ogige, intervengono alcune tradizioni scritte ed orali provenienti dalle medesime popolazioni. E’ comune infatti il parallelismo del fuoco con l’acqua, come nella favola di Fetonte o dell’egizia Fenice che si rigenera dalle ceneri.
Un corpo celeste avrebbe dunque sfiorato la Terra, lanciando frammenti infuocati e rivoluzionando l’equilibrio dell’asse terrestre? Innegabile è la contemporaneità storica e mitologica del rapido alternarsi di incendi ed inondazioni, proprio nel periodo attorno al 4000 a.C.. Horus Apoline ci fornisce il geroglifico di un leone sormontato da un uomo con in mano una fiamma ardente. Lo stesso leone è nell’atto di abbassare il capo in direzione di uno specchio d’acqua.
In molte zone del Globo, soprattutto nelle aree costiere caratterizzate da dirupi (anche nelle vicinanze di Roma si possono riscontrare), è possibile effettivamente riscontrare degli strati geologici piuttosto particolari. Partendo dal basso, troviamo conchiglie ed ammoniti per un’altezza spesso anche di metri; poi, un ampio strato di terra o rocce vulcaniche o sedimentarie. Speso questi strati sono tutt’oggi interrati o sommersi, ma la cosa che più incuriosisce è che nelle parti visibili (e quindi relativamente più recenti), abbiamo in rapido susseguirsi di uno strato di carboni e di conchiglie che spesso coincidono e si confondono.
William Whiston teorizzò queste “prove” come segue: “…per un passaggio di una cometa vicino alla Terra di otto volte più vicina della Luna, di circolare che era l’orbita di essa terra, divenne ellittica; e il sole che da prima era al centro d’un circolo, si ritrovò nel fuoco d’un ellissi corrispondente al luogo dell’attrazione della cometa, che discese appunto nel piano dell’eclittica verso il suo perielio, l’anno XII del toro. L’anno s’allungò per conseguenza di giorni 10 e ore 1,30 e venne il diluvio…”.
Scheletri ed ossa di animali tipici di ambienti caldi, ritrovati in Siberia, Ungheria e Francia, farebbe appunto supporre un vero e proprio capovolgimento delle fasce climatiche. Sopra il Volga, sul monte Bogda, sulle rive di un lago salmastro, vennero ritrovate conchiglie tropicali e coralli.
Sembrerebbero coinvolte anche note leggende metaforiche come quella egiziana di Iside ed Osiride. Diodoro narra che “…Osiride fu ucciso e lacerato da suo fratello Tifone… Iside, moglie e sorella lo vendicò ma nel ricercare le varie parti del corpo del marito, non riuscì a ritrovare la parte virile, istituendo le festività del Fallo come elemento di rigenerazione…”. Erodoto attribuì questi eventi ai tempi di Ercole Egizio, quindi al tempo dell’inondazione.
Se dunque per definizione Osiride rappresentava il sole ed Iside la Luna (quasi ad indicare un perfetto equilibrio iniziale) chi avrebbe dovuto rappresentare Tifone che ai tempi di Ercole Egizio causò tanta rovina? Sarà forse un caso che il primo Re d’Egitto diede ad una cometa proprio il nome di Tifone? Gli Egizi, secondo Plutarco, associavano il nome di Tifone alla sventura e detestavano il mare aperto. Mai è menzionato nella cultura egizia il nome di Nettuno o di suoi omologhi. Gli stessi Egizi che continuarono a perpetrare il numero 360 nel conteggio annuale (evidenziati dai 360 sacerdoti di Acaut o dai 360 vasi nel tempio di Osiride secondo le cerimonie quotidiane), privi cioè di quei 5 giorni in più presumibilmente causati dallo spostamento dell’asse terrestre.
E’ anche degno di curiosità sapere che il termine giapponese per indicare gli uragani è proprio “Tifone”.
LA (RI)COLONIZZAZIONE DEGLI ETRUSCHI FONDATORI DI TROYA
Ma tornando all’analisi storico-antropologica da cui eravamo partiti, il panorama che si sarebbe presentato nell’epoca post-diluviana poteva essere caratterizzato da retaggi culturali di una comune origine, da antiche conoscenze tramandate da chissà quale epoca e da un azzeramento dell’evoluzione tecnica e pratica. Si ripartì praticamente dalla pietra!
Il popolo Etrusco, sarebbe dunque una “cellula” di una precedente cultura, una sorta di seme impiantato in un nuovo contesto territoriale da cui gli storiografi e gli archeologi farebbero partire le vicende ufficiali. Ma la definizione stessa di “Etruschi” quale civiltà unitaria è in parte errata.
“Etrusca” era il nome dato ad una confederazione di popoli e città, spesso caratterizzati da etnie e culture differenti (o, come abbiamo visto, differenziate nel tempo e dall’abitat): Tirreni, Rasenna, Tusci, Falisci, Ceriti, Veienti, Capenati, Ruma, Umbri, Equi, Sabini, Aurunci e forse Volsci e Reti.
L’unione di ceppi provenienti dal mare e portatori di conoscenze più avanzate, tra cui la stessa scrittura, con alcuni popoli autoctoni (che spesso erano ancora arroccati sulle montagne, come gli Villanoviani, Ausoni e gli Enotri), determinò l’esigenza di condividere i medesimi territori attraverso un’organizzazione politico-amministrativa che né gestisse il rapporto. Dal punto di vista religioso, non vi era invece alcuna necessità di mediazione, riconoscendosi tutti nelle credenze “originarie” e comuni.
Analizzando più da vicino le stesse città che componevano l’area anticamente occupata dagli Etruschi, possiamo scorgere alcuni elementi caratteristici, quasi esclusivi, in ogni singolo agglomerato urbano.
Tale rete cosmopolita è evidenziata dalle differenze palesi nell’edificazioni di strutture abitative e funerarie: la tradizione delle “tombe a tumulo” ad esempio sembrerebbe focalizzata nel territorio cerite (seppur utilizzata sporadicamente in altre aree dell’Etruria) e del tutto simile a tecniche costruttive rivenute a Gordion (nella regione Frigia, chiamata “Phyrgia”, con una curiosa assonanza con la nostrana Pyrgi), in India vicino Ceylon, in Corea a Gyeongju, in Irlanda presso Newgrange, in Danimarca a Klekkende Hoy ed a King Asger’s Moud, come nella Gran Bretagna nell’area circostante il più noto monumento di Stonehenge o nel Wiltshire (questi ultimi anche parte integrante di un Crop Circles).
Diviene facile supporre che la “tradizione” che introdusse tale tecnica di sepoltura appartenesse ad uno di quei ceppi provenienti dai “Figliuoli dell’Oceano” piuttosto che da gruppi autoctoni.
E’ possibile che proprio questa differenziazione culturale tra le varie città-stato, presente anche con una precisa simbologia sulle rispettive monete, sia all’origine delle difficoltà e delle discordanze (accese ancora oggi) nell’attribuire un’origine certa a questo popolo?
Non dovremmo forse cominciare ad analizzare la provenienza di ciascun componente della Federazione Etrusca?
Tra i più popolosi centri abitati del territorio Etrusco, alcuni noti per sanguinose battaglie con Roma, altri per la particolare sacralità delle vestigia, dopo anni di studi empirici e sul campo, focalizzai l’attenzione sulla città di Tarquinia (o Corneto, o Corito).
Questa possiede delle peculiarità che la differenziano da tutte le altre in modo piuttosto netto, sbilanciando su di essa il baricentro di tutta la cultura etrusca (differente dall’Omphalos sacro, individuato nel Lago di Bolsena).
Ma per comprendere meglio l’importanza che Tarquinia rivestì occorre, anche in questo caso, fare un ulteriore passo indietro in quel limbo dove la storia si amalgama con il mito…
Erodoto e Tucidite, per primi, narrarono una storia diversa da quella assunta oggi dallo standard accademico: i Pelasgi, questo grande movimento di erranti marittimi, tra cui gli Etruschi, giunsero nelle terre del Mare Egeo portando la loro scrittura, i miti e rinnovando il culto religioso, esattamente come dovette accadere in Italia (partirono dalla fondazione della città di Spina e quindi si propagarono su tutta la Penisola). Tralasciando le ultime scoperte sull’origine e la diffusione della scrittura Etrusca (è ormai appurato che le forme di greco arcaico coincidessero quasi completamente con l’Etrusco, come dai ritrovamenti sull’Isola di Lemno), otteniamo un primo dato piuttosto sconcertante.
Fu la cultura pelasgica -e quindi anche etrusca- a fondare le basi della grande Grecia e dell’Ellenismo e non il contrario. I Popoli del Mare, si distribuirono in varie aree di questo territorio, incontrando gli autoctoni e ridividendosi secondo le rispettive origini risalenti all’epoca antecedente il diluvio di Ogigene.
Virgilio, nel narrare le peripezie dell’eroe Enea, mirate nell’ufficialità a concedere a Roma il lustro delle origini greche, sembra commettere dei grossolani errori di date, non lesinando di nascondere tra le righe alcune frasi apparentemente fuori contesto. Per un autore stimato ed in auge come P.Virgilio Marone, queste dissonanze non potevano essere frutto di errori o sviste, ma bensì di tracce finalizzate alla corretta (forse futura) comprensione della verità.
Ad esempio, risulta evidente che l’esistenza del Re Latino non potesse essere contemporanea alla venuta di Enea in Italia. Ma il “Latino” citato da Virgilio, poteva in realtà essere il “Latino” re degli Enotri, discendente di Saturno, vissuto all’epoca della guerra di Troia, come riportato da Esiodo. Gli Enotri autoctoni che in precedenza si erano fusi con i Tirreni? Qui la faccenda si complica.
Tucidite spiega bene che dopo la guerra di Troia, furono fondate le colonie greche in Italia, ma che molto prima di questa, già i popoli che si erano stabiliti sulla nostra penisola avessero fondato le loro città in Grecia. Un rocambolesco serpente che si morde la coda, ma lasciando sfogo alla libera intuizione, la situazione potrebbe apparire chiara: i Pelasgi (definiti da Dionigi, “vagabondi come Cicogne”) giunsero sulle coste italiche; qui si fusero con gli autoctoni, quindi, trasmessa l’arte della navigazione, colonizzarono le terre elleniche; con la guerra di Troia, i Greci fuggono e si dirigono verso l’Italia, considerata una sorta di patria d’origine. Fu un ritorno, non una colonizzazione.
Non è un segreto, ad esempio, che Dardano costruttore (oggi forse diremmo “fondatore”) di Troia fosse Etrusco, e nello specifico di Corito (inizialmente localizzata presso Cortona, ma in seguito identificata in Tarquinia, anche in virtù dell’attiguo porto.)
A sottolineare un profondo legame tra i Troiani ed i Tarquini, interviene Licofrone che addirittura narra di Ulisse ed Enea compagni di viaggio di Tarconte (Tarchun, fondatore della stessa Tarquinia, nobile re, condottiero e creatore delle dodici città-stato dell’Italia centrale e delle dodici città dell’Etruria Padana) e Tirreno in un lungo peregrinare per i mari.
Ma come ci ricorda il Palmucci, ben altre fonti, riguardanti soprattutto le Leggenda di Dardano, ci inducono a riflettere:
Virgilio nell’Eneide, per bocca del re Latino rivolto ai Troiani: “…Corito è il nome della città e del monte, cosiddetti da Corito, come alcuni ritengono, padre di Dardano, lì sepolto…”;
Alcimo Siculo, nel citare una leggenda etrusca, “…la moglie di Enea era una donna etrusca di nome Tirrenia (o Etruria): da lei nacque Romolo, e, da Romolo nacque Alba, e da Alba nacque Remo che fondò Roma…”; ancora Virgilio, in occasione dell’incontro di Enea con il re Etrusco Tarconte, elegge Tarquinia a “antiqua mater”, ispirandosi alla già mitizzata partenza dei Pelasgi dall’attiguo porto di Regisvilla (Gravisca), alla volta dell’Egeo.
Sempre nell’Eneide, ritroviamo il passo in cui i Troiani ascoltano a Delo l’oracolo di Apollo: “antiquam exquirite matrem! (cercate l’antica madre)”. Erroneamente il padre di Enea ritenne dovesse trattarsi di Creta ma ivi giunti, furono tutti colti da una grave pestilenza.
Una notte, i Penati apparvero in sogno all’eroe vaticinando: “Bisogna cambiare le sedi. Apollo non ti consigliò di venire in questi lidi, né ti comandò di fermarti a Creta. Vi è un luogo, i Greci lo chiamano con il nome di Esperia, terra antica, potente per le armi e per la fertilità del suolo. L'abitarono uomini Enotri. Ora è fama che i posteri abbiano chiamato Italia quella gente, dal nome del loro condottiero. Queste sono le nostre proprie sedi. Da qui venne Dardano e il padre Iasio, dal quale progenitore la nostra stirpe deriva. Orsù, alzati, e lieto riferisci al vecchio genitore queste parole di certezza: che egli cerchi Corito (oggi Tarquinia) e le terre di Ausonia (Corythum terrasque requirat Ausonias). Giove ti nega i campi di Creta!”
Alessandra (detta anche Cassandra), figlia di Priamo, re di Troia, profetizza la rovina della città.
”Ma tempo verrà, in cui i nipoti (i Romani) faranno ancor più grande la gloria del mio casato perché conseguiranno la gloria della vittoria nelle armi ed otterranno il dominio e la signoria della terra e del mare. Né, o patria infelice, la tua gloria che sta svanendo finirà per esser coperta dalle tenebre perché quel mio parente (Enea), che è figlio della dea Castnia e Coirade (Venere), uomo egregio per il senno e valente nelle armi, lascerà il seme di due gemelli (Romolo e Remo) simili a lioncelli, progenie insigne per gagliardia. Prima egli (Enea) andrà ad abitare a Recelo (città della Macedonia), presso le vette del Cisso (a nord della penisola Calcidica), dove le donne, in onore del dio Lafistio (Dioniso), si adornano di corna. Poi, dopo esser partito dalla Almopia (regione della Macedonia), errabondo lo accoglierà il paese dei Tirreni, dove il Linceo (il fiume Mignone presso Tarquinia) spinge la corrente delle acque calde, e Pisa e i campi di Agilla ricchi di ovini. Ed uno che gli era stato nemico unirà amichevolmente il proprio esercito al suo. Costui è l'Errante (Nanos = Errante, soprannome etrusco di Ulisse) che con il suo vagare aveva esplorato ogni angolo della terra. E gli si uniranno anche i due gemelli Tarconte e Tirreno, figli del re (Telefo) della Misia [...], discendenti dal sangue di Ercole, i quali nella lotta son fieri come lupi…”
LA CENTRALITA’ DI TARQUINIA
Ora, tutta questa serie di indicazioni (qui ne ho riportato solo una minima parte), sembrerebbe ancor più confermare la discendenza dei Troiani dai Tarquiniesi. Si pensi che addirittura la più antica raffigurazione esistente (V sec. a.C.) sul mito di Troia, è su un vaso (di provenienza non identificata) raffigurante Enea che porta su una spalla il padre Anchise che sorregge una cesta con i Sacri Penati. Premetto che questo genere di iconografia era sempre rappresentata dai Greci con Anchise seduto su entrambe le spalle di Enea, mentre gli Etruschi preferivano l’immagine dell’anziano portato su una sola spalla dall’eroe. Inoltre, questa particolare decorazione risulta differente dagli standard greci, poiché Enea è statico, quasi inginocchiato in segno di riverenza, mentre il padre tiene ben in vista gli oggetti sacri, come nel segno di offrirli o di farli riconoscere.
Secondo l’Alfoeldi, si tratta dunque non della fuga dalla città assediata, ma bensì dell’arrivo sulle coste tarquiniesi!
La piccola città laziale assume dunque un significato più profondo nello scenario storico e mitologico degli Etruschi. Lo stesso Tagete sceglie proprio quel luogo per manifestarsi!
Cicerone, nel “De divinazione” cita testualmente: “...Dicono che nell'agro Tarquiniese, mentre si lavorava la terra e un solco era impresso più profondamente, saltò fuori all'improvviso un certo Tages, e parlò a colui che arava. Questo Tages poi, come è (scritto) nei libri degli Etruschi, si dice si fosse manifestato d'aspetto fanciullesco, ma di saggezza da vecchio. Mentre il bifolco si sbalordì alla sua vista e mandò un forte grido di meraviglia, si fece un tumulto, e in breve tempo tutta l'Etruria si radunò in quel luogo,. allora egli parlò motto dinanzi a molti uditori, affinchè imparassero e affidassero alla scrittura tutte le sue parole; tutto poi il suo discorso fu quello, nel quale era contenuto l'insegnamento dell'aruspicina...”.
Marco Corsini, ricorda addirittura un rapporto diretto anche con gli storici nemici di Enea: “Attraverso la creazione del mito verisimile (ma mai realmente avvenuto) del Viaggio d’Odisseo, che era un racconto piacevole e non un’opera storica, è chiaro, Omero si riprometteva di far risalire ad età eroica la relazione di ospitalità fra Tarquiniati e Greci, quando già Ino Leucothea aveva salvato Odisseo dal naufragio prima in forma di folaga poi nelle vesti di Nausicaa figlia d’Alcinoo e Arete coppia reale di Tarquinia-Pyrgi che lo avevano fatto ricondurre in patria da una nave feacia. I mercanti greci erano così chiamati a commerciare con l’Etruria ponendo il controvalore sotto la protezione del santuario-banca pirgense di Ino Leucothea, di cui Odisseo aveva già sperimentato la protezione, come della casa regnante tarquiniate che lo aveva ricondotto in patria più carico di ricchezze di quante ne aveva prese a Troia e perdute in mare con nave e compagni.”
In quest’area si percepisce ancora molto forte anche un culto che ci rimanda a quei Pelasgi erranti: quello del Toro.
La stessa radice di Tarchum (Tarconte) e di Tarch(u)na (Tarquinia), come sostenuto dal Feo, è originaria dell’Asia Minore: infatti “tark” ha il significato di forza rigenerativa o di toro. Tark era anche il nome di un dio-toro Hittita.
Sempre Giovanni Feo, presenta la tesi del ricercatore francese Jean Richer secondo la quale, proiettando uno scenario astrale centrato sul Lago di Bolsena (centro religioso e divinatorio etrusco), l’antico abitato di Tarquinia è perpendicolare proprio alla costellazione del Toro.
Ma i riferimenti al toro non si esauriscono qui.
A pochi chilometri dall’odierna Tarquinia, troviamo ancora esistenti le note “Terme Taurine” e nella necropoli principale, una tomba detta “dei Tori”. Lo stesso Tagete (da molti visto come l’Hermes etrusco), uscì da un solco di aratro (altro riferimento ai buoi/tori?) tracciato da Tarconte e lo stesso nome “italòs” significa “terra dei tori”.
Non può dunque sorgere il sospetto di una coincidenza tra il segno zodiacale del Toro e l’inizio dell’era precessionaria omonima che, a sua volta, corrisponde quasi precisamente al termine del Diluvio di Ogige ed al successivo ripopolamento? Un toro virile e fecondatore, ma anche colui che tirando l’aratro, segna i confini della (ri)nascita di una città, uno stato, un popolo.
Possibile che il 90% della mitologia etrusca, nasca in questo luogo?
Abbiamo già visto che sempre qui trovò sepoltura il corpo di Dardano, capostipite dei Troiani. Occorre precisare che secondo recenti studi, l’attuale Tarquinia sorge sulle vestigia di Corneto, mentre l’antica “Tarchuna” era collocata sulla collina antistante. In quest’ultima ancora oggi si possono individuare i resti dell”Ara della Regina”, nel punto esatto dove si dice ci manifestò Tagete.
In questo tempio nasce il culto della grande triade etrusca (“Megaloi Theoi”) con la madre Cibele-Uni, la figlia Persefone-Menerva ed il padre fecondatore Dioniso-Tinia.
Restai sorpreso quando nel 2006 Il Corriere della Sera riportò la notizia del ritrovamento del “Fanum Voltumnae” e della sua identificazione come luogo di riunione politica, amministrativa e religiosa dei capi delle dodici lucumonie, poiché Virgilio sostiene fosse in realtà nei pressi di Tarquinia. In effetti, osservando gli scavi orvietani, si notano strutture di superficie o addirittura in elevazione, come all’uso dei Romani. Sappiamo che gli Etruschi veneravano entità sotterranee e che sentissero l’esigenza di un contatto, se non una penetrazione, con la terra.
Le stesse “vie cave”, oltre ad assolvere a compiti di sicurezza, riparo e superamento dei dislivelli, avevano un forte significato simbolico, introducendo il viandante nelle viscere della terra.
Quindi, un “gran consiglio” delle città stato, vista la profonda spiritualità degli Etruschi, difficilmente poteva svolgersi in un contesto privo di quel principio ispiratore divino,trasudato dalla terra e veicolato dalle acque.
Con questo non voglio assolutamente negare che il “Fanum Voltumnae” non costituisse realmente un luogo di riunione della Federazione Etrusca (già influenzato dalle tecniche costruttive romane), ma ipotizzare che questo sostituì un originale e più antico sito che doveva trovarsi più vicino all’egemone Tarquinia, successivamente abbandonato (o destinato a diverso utilizzo) a seguito della fondazione di Roma, come vedremo più avanti.
Durante un sopralluogo esplorativo nel territorio che si estende tra il monte Cimino e Tarquinia (ininterrottamente costellato di necropoli, quasi ad indicare una delle vie più sacre), una struttura detta “Grotta Porcina” (per secoli è stata usata come porcile) ma conosciuta anticamente come “La Grande Ruota”, considerata ad oggi il più grande tumulo etrusco esistente.
Questa è divisa in 3 distinti livelli dal sapore tutt’altro che cimiteriale: il fatto che sia contornata da tombe rupestri ha indotto gli studiosi a considerarla una struttura sepolcrale, ma all’interno –in grandissime sale- sono visibili degli intagli che fanno pensare a basi per scranni, non alloggiamenti di sarcofagi o salme.
Nell’avvallamento sottostante fu ritrovato un altare celebrativo ed alcuni contenitori atti (forse) a pigiare l’uva, elementi che ci riporterebbero più a rituali gioviali e di ospitalità, piuttosto che riti funebri. Ripeto che la presenza anche di tombe non deve trarre in inganno, poiché la cultura religiosa degli Etruschi era molto dipendente dal rapporto con gli antenati defunti.
Disseminare le principali arterie di comunicazione con tombe, costituiva un’ulteriore stato di protezione e (nuovamente) un modo per essere sempre vicini all’aldilà, senza contare che per un defunto etrusco, la peggior dannazione era l’essere dimenticato. Questo spiega perché difficilmente possiamo scorgere una via dichiaratamente etrusca, senza incontrare sepolcri. Essere sepolti presso un luogo che presumibilmente accentrava personalità politiche e religiose da tutta l’Etruria era quindi un grande onore, soprattutto per i discendenti.
L’area è delimitata da un corso d’acqua e sull’altura presente sulla sponda opposta, abbiamo trovato chiare tracce di strutture “ciclopiche” (gigantesche pietre da costruzione) completamente devastate e dalle planimetrie irriconoscibili, anche per la presenza di alberi ed arbusti.
Se a questo aggiungiamo che tale sito è ubicato a poche centinaia di metri dall’antico tracciato della Via Clodia (“Tarquiniese” ai tempi degli Etruschi), credo dovremmo porci delle domande.
Tutte le strade dell’Etruria non erano -come recentemente stabilito- dirette al Lago di Bolsena, ma a Tarquinia, come ci ricorda lo scrittore e studioso Alberto Palmucci.
Quanto fin qui descritto, ha tentato di stabilire alcuni azzardati punti chiave:
- un catastrofico evento devasta il mondo conosciuto e con le acque divide popoli che un tempo possedevano simili tradizioni e culti;
- i supersiti, in parte si rifugiano sulle alture, restando o divenendo “autoctoni”, altri errano per i mari, prendendo il nome di Pelasgi o “Figliuoli dell’Oceano”: tra questi sono annoverati gli “Atlantidei”, i “Titani” e molte genti provenienti dall’Egeo e dall’Asia Minore;
- l’incontro di così molteplici e variegate culture, favorisce l’evoluzione dei Pelasgi rispetto agli Autoctoni di fatto separati dal resto del mondo.
- la (ri)colonizzazione della penisola italiana ha due precisi punti focali di primo contatto: Spina al nord e Tarquinia al centro.
- i ceppi più evoluti dei Pelasgi trasmettono la scrittura, la conoscenza e rinnovano il culto religioso introducendo riti e simbologie anche tesi a non dimenticare il Diluvio di Ogige;
- nei paesi dove si stabiliscono i Pelasgi, il territorio viene diviso in dodici parti;
- l’eroe Enea, approdando a Tarquinia in cerca dell’aiuto di Tarconte, riconosce e ritrova i padri della sua stirpe e del suo popolo troiano probabilmente partiti ai tempi del Diluvio;
Ma se già questi elementi sarebbero sufficienti a cancellare la memoria di un popolo, per secoli sottovalutato, quale potrebbe essere stato l’elemento scatenante che né determinò la scomparsa culturale? Molti autori antichi e moderni ci pongono sulla buona strada, ma il sospetto che uno tra tutti, Virgilio, abbia lasciato delle tracce sull’Eneide ci obbliga a proseguire, entrando però nel puro campo delle ipotesi.
TARQUINIA ALL’ORIGINE DI ROMA
La nostra abitudine nell’osservare ogni cosa a 360°, senza i limiti imposti dall’ufficialità e dagli standard assunti, sarà di grande aiuto, poiché chiuderemo questa disamina proprio tornando ad una delle empiriche domande iniziali: “Sapendo che il territorio Etrusco nel centro Italia si estendeva dall’Emilia a buona parte della Campania, con agglomerati che sfioravano già all’epoca i milioni di abitanti, come fece un drappello di Troiani (seppur aiutati) ad avviare la nascita di Roma e del suo futuro potente impero?
Sarebbe stato come recarsi a casa di un estraneo e, senza permesso, usare il suo giardino per piantare i nostri pomodori per poi decidere di prenderci anche un paio di sue stanze…
La verità è che Roma fu fondata nel centro di una potente e radicata regione etrusca e che ciò non sarebbe stato in alcun modo possibile, senza l’aiuto, il coinvolgimento e la partecipazione degli stessi Etruschi.
E’ oramai appurato anche dall’archeologia accademica di come la leggenda di Romolo e Remo faccia acqua da ogni parte. Uno dei tanti ed ulteriori tentativi di inventare la storia per coprire la realtà degli accadimenti.
Il nome stesso “Roma” è stato forzatamente fatto risalire a Remo, quando invece era di chiara origine etrusca. Una delle prime denominazioni di quell’agglomerato di villaggi fu “Valentia”, traduzione latina dal greco Rhòmee (rwmh) termine indicante la potenza e la forza. Però c’è anche da constatare che il ceppo etrusco presente nell’area erano i “Ruma”…
Anche i nomi di Romolo e Remo potrebbero trovare la loro origine in note famiglie di rango tipicamente etrusche: i “Remni” ed i “Romylii”.
Tutto il territorio a destra dal fiume Tevere (la cui riva era appunto denominata “Ripa Veiens”) era sotto il controllo politico di Vejo (nella foto) già ai tempi del Re Vel (753 a.C.), mentre l’area a sud (comprese le alture dei Castelli Romani) era legata ai Latini con ben 60 villaggi fino al promontorio del Circeo e “cuore amministrativo” in Alba Longa (confinante con la “Tusculum” di Telagono -re pelasgico- altro importante centro etrusco abitato dai Tusci, provenienti dall’aera tarquiniese). Tito Livio accenna ad una pacifica convivenza tra i due popoli ed a comuni interessi commerciali. Il fatto che per tradizione acquisita, la data della nascita di Roma sia fissata al 753 a.C. sembrerebbe più in relazione all’inizio del dominio di Veio su quei villaggi che su una vera e propria edificazione, che prove archeologiche collocherebbero attorno al 500 a.C. (anche perché fino a questa data si segnalano solo immense paludi…)
E’ risaputo che ogni mito, quando si scontra con la storia, pecca sempre da un punto di vista cronologico.
Non mi dilungherò sulle innumerevoli tracce della predominante presenza etrusca nelle simbologie religiose dalla Roma antica, forse oggetto di una pubblicazione specifica ed approfondita, saltando direttamente alla più ardita delle conclusioni.
Tracciamo uno scenario ipotetico, concedendoci qualche licenza deduttiva e romanzata (tanto la storia sembra essere composta solamente di tali licenze…).
Enea si rivolge a Tarconte per muovere contro i Latini (che il mito omerico vuole legati più ad una immigrazione “pelasgico-greca”, quindi in contrasto con quella troiana), facendo leva sulla comune assonanza di cultura ed origini. Si forma dunque un temibile esercito troiano-tarquiniese con il preciso intento di prendere il controllo dei territori dove sorgerà la futura Roma.
Inizialmente la città di Veio appoggia l’iniziativa, intravedendo la conquista del potere commerciale dei Latini. Il fatto che Enea stabilisca sul Gianicolo (territorio veientano) il proprio centro strategico, dimostrerebbe questa tesi.
La vittoria sui Latini, consumata a Cuma attorno al 338 a.C. fu compiuta grazie anche all’intervento dei Tusci di Tusculum (divenuto avamposto tarquiniese in territorio nemico e per questo premiato con una delle prime cittadinanze romane) ed al probabile approvvigionamento di truppe da parte dei Sanniti.
La città di Veio, già a quel tempo, forse delusa dal monopolio di Tarquinia sulla nuova città (da notare che i re di Roma di etnia etrusca, erano tutti provenienti da Tarquinia), era entrata in contrapposizione e quindi in conflitto con Roma, cadendo a seguito di un assedio (del tutto speculare a quello di Troia) per mano di Furio Camillo nel 396 a.C.
Su questa vicenda desidero evidenziare due curiosità.
La prima è che Veio si vede rifiutare l’aiuto della Confederazione Etrusca, convocata appositamente al Fanum Voltumnae di Orvieto (spostato in quel luogo perché Tarquinia era ormai divenuta una realtà a parte rispetto alle lucumonie?), probabilmente poiché alcun discendente “pelasgico” avrebbe mai osato aggredire la “antiqua mater”, tranne i nuovi aggregati (al tempo le città-stato erano divenute molte più di dodici).
La seconda, riguarda il personaggio di Furio Camillo, o meglio il suo cognome (gens).
Il già citato Giovanni Feo, nel suo “Miti, segni e simboli etruschi” nel tracciare un quadro inter-culturale sulle origini del mito di Tagete, scrive: “Uno dei nomi di Hermes nei Misteri di Samotracia era Cadmilos, in allusione alle remote origini fenicio-egizie del dio (…) Nel culto etrusco comparivano giovani sacerdoti, chiamati Cadmili, che in età romana furono detti Camilli. E’ lo sfuggente Hermes Cadmilos a dare il nome ai Cadmili etruschi, adepti destinati alle nozze sacre con la sacerdotessa che incarnava il potere della Grande Dea.” Un ennesimo dato che ci conferma la persistenza di metafore, invenzioni ed elementi criptici in tutta la vicenda etrusca.
L’OBLIO DI UN EPILOGO
Ora riusciamo anche a scorgere i vari motivi che decisero la “damnatio memoriae” di questo popolo, non a caso consumata sotto Costantino (con l’aiuto della madre Elena). Anzi, potremmo affermare che parte della storia dell’intera Umanità è stata riscritta proprio per volere dell’imperatore romano.
Costantino, promotore del Concilio di Nicea con cui si stabilirono i canoni del Cristianesimo, eliminando tutte le fonti dissimili, gnostiche ed apocrife, volle molto probabilmente eliminare la cultura religiosa di quel popolo che proprio grazie ad un credo pagano, aveva dato origine a Roma ed al più grande impero della storia.
Al contempo, favorendo la memoria degli Etruschi, si sarebbe giunti a conoscerne le radici e la Sapienza tramandata, dovendo ammettere un periodo ante-diluviano che avrebbe posto dubbi sull’inoppugnabilità dell’Antico Testamento e quindi sulla nascente fede cristiana.
Proprio il Diluvio di Ogige che con le sue immani inondazioni aveva coperto le tracce di un antico e fiorente passato, ponendo in ombra i fasti romani e greci. Ci siamo, ad esempio, mai chiesti quali conseguenze avrebbe avuto una massa apocalittica di acqua e fango su strutture megalitiche, templi ed in generale sulle possibile testimonianze di una “passata umanità”? Il fango avrebbe ricoperto ogni cosa, divenendo terra fertile. Ciò spiegherebbe i numerosi ritrovamenti di strutture spesso enormi (soprattutto piramidi) sparse in tutto il mondo e nascoste da metri di terra, bosco o prati?
- La “Piramide di Visoko”, in Bosnia, celata da un’intera collina;
- la “Piramide di Cahuachi in Perù;
- le “Piramidi di Montevecchia”, in provincia di Lecco;
- la piramide di “Cerumbelle” in provincia di Enna;
- la “Piramide di Ch'i She huang ti” ed altre 7 in Cina;
- la “Piramide di Cahal Pech” in Belize;
- la “Ziqqurat di Monte d’Accodi” in provincia di Sassari
Quante testimonianze di un lontano passato riusciremo a strappare dall’oblio imposto “a tavolino” per ragioni politiche, religiose ed economiche (cioè, in una parola, “di potere”)?
Da chi è a conoscenza delle mie ricerche, ricevo ogni giorno segnalazioni di gigantesche formazioni collinari a tumolo o a piramide in tutta Italia. La maggior parte sono dovute alla particolare conformazione del terreno, ma altre mi lasciano profondamente perplesso e divengono oggetto di approfondimento. Anche nelle vicinanze di Roma, potrebbero celarsi un’enorme struttura piramidale e vari tumuli grandi come intere colline.
Questo è dunque il “Grande Segreto Etrusco”? Lo stesso segreto che ritroviamo in ogni antica civiltà su tutto il globo. Segni di un pensiero ed una spiritualità apparentemente comuni oppure retaggi di una Conoscenza che non aveva confini, almeno non quelli attuali…
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