Non tutti moriamo dalla voglia di cavalcare un razzo o di navigare nello spazio infinito. Ma la curiosità tipica della nostra specie ci spinge a finanziare parte del viaggio e a festeggiare il ritorno dei viaggiatori. È vero che esploriamo per trovare un posto migliore per vivere, per conquistare nuovi territori, per fare fortuna. Ma esploriamo anche solo per scoprire che c’è dall’altra parte.
«Nessun altro mammifero se ne va in giro come facciamo noi», dice Svante Pääbo, direttore dell’Istituto Max Planck di Antropologia evolutiva di Lipsia, dove studia le origini dell’uomo attraverso la genetica. «Noi scavalchiamo i confini. Ci spingiamo in nuovi territori anche quando lì dove siamo non ci mancano le risorse. Gli altri animali non lo fanno. E nemmeno le altre specie umane. I Neandertal sono vissuti per centinaia di migliaia di anni, ma non si sono mai sparsi per il mondo. Noi in soli 50 mila anni abbiamo occupato tutto il pianeta. C’è una sorta di follia in questo. Quando viaggi in mare aperto non hai idea di cosa ci sia dall’altra parte. E adesso andiamo su Marte. Non ci fermiamo mai. Perché?» Già, perché? Pääbo e gli altri ricercatori che cercano di rispondere sono loro stessi esploratori che si addentrano in territori sempre nuovi.
Sanno che in qualunque momento potrebbero essere costretti a tornare sui propri passi e riorganizzarsi. Sanno che le loro discipline - antropologia, genetica, neuropsicologia dello sviluppo - sono giovani. E che quindi qualsiasi teoria potrebbe crollare alla luce di nuove scoperte. Ma per chi studia il comportamento umano l’impulso a esplorare è un argomento irresistibile.
«Nessun altro mammifero se ne va in giro come facciamo noi», dice Svante Pääbo, direttore dell’Istituto Max Planck di Antropologia evolutiva di Lipsia, dove studia le origini dell’uomo attraverso la genetica. «Noi scavalchiamo i confini. Ci spingiamo in nuovi territori anche quando lì dove siamo non ci mancano le risorse. Gli altri animali non lo fanno. E nemmeno le altre specie umane. I Neandertal sono vissuti per centinaia di migliaia di anni, ma non si sono mai sparsi per il mondo. Noi in soli 50 mila anni abbiamo occupato tutto il pianeta. C’è una sorta di follia in questo. Quando viaggi in mare aperto non hai idea di cosa ci sia dall’altra parte. E adesso andiamo su Marte. Non ci fermiamo mai. Perché?» Già, perché? Pääbo e gli altri ricercatori che cercano di rispondere sono loro stessi esploratori che si addentrano in territori sempre nuovi.
Sanno che in qualunque momento potrebbero essere costretti a tornare sui propri passi e riorganizzarsi. Sanno che le loro discipline - antropologia, genetica, neuropsicologia dello sviluppo - sono giovani. E che quindi qualsiasi teoria potrebbe crollare alla luce di nuove scoperte. Ma per chi studia il comportamento umano l’impulso a esplorare è un argomento irresistibile.
Oggi, mentre seguiamo con passione il rover Curiosity che sta esplorando Marte, gli Stati Uniti, assieme ad altri governi e a diverse società private, si preparano a spedire sul pianeta rosso anche l’uomo. Qualche sognatore parla addirittura di inviare un veicolo spaziale verso la stella più vicina. Michael Barratt - che è stato medico, subacqueo, pilota di jet, marinaio per 40 anni, e da 12 è astronauta della NASA - è tra quanti non vedono l’ora di poter andare su Marte.
Da dove nasce questa “follia”? Che cosa ha spinto i primi esseri umani a lasciare l’Africa e ad arrivare fino alla Luna e oltre? «Stiamo facendo proprio come loro», spiega. «È sempre così, in ogni momento della storia umana.
Una società sviluppa una tecnologia abilitante, che sia la capacità di conservare e trasportare il cibo o quella di costruire una nave o di lanciare un razzo. Poi si trova sempre qualcuno che ha la passione di partire per esplorare l’ignoto, anche a costo di attaccarsi un razzo al sedere».
Se il nostro impulso a esplorare è innato, forse la sua origine risiede nel genoma. E in effetti esiste una mutazione genetica di cui si parla spesso quando si affrontano questi temi: è una variante del gene DRD4, che serve a controllare la dopamina, un neurotrasmettitore prodotto dal cervello che ha un ruolo importante nei meccanismi dell’apprendimento e della ricompensa. La variante, di cui è portatore circa il 20 per cento degli esseri umani, si chiama DRD4-7R, e diversi studi la associano alla curiosità e all’irrequietezza.
Chi la reca sarebbe più disposto a correre rischi, a esplorare nuovi luoghi e idee, a provare nuovi cibi, relazioni, droghe, ad approfittare di occasioni sessuali e, in generale, ad accettare con entusiasmo il movimento, il cambiamento e l’avventura. Ma allora, l’allele 7R è davvero il gene dell’esploratore, o gene dell’avventura, come alcuni lo chiamano?Kenneth Kidd, un genetista della Yale University che vent’anni fa è stato tra gli scopritori della variante, avverte di non sopravvalutarne il ruolo.
Come altri scettici, Kidd pensa che molti degli studi che collegano 7R alla tendenza a esplorare siano carenti dal punto di vista del metodo o della statistica. Ci sono altrettanti studi, sostiene, che negano che esista quel legame. «Non si può ridurre a un singolo gene una realtà complessa come l’esigenza umana di esplorare», commenta ridendo. «La genetica non funziona così».
C’è un’altra dinamica autorinforzante che opera nell’ambito dell’esplorazione: una continua interazione tra cultura e geni, in cui i geni plasmano la cultura che creiamo e la cultura a sua volta plasma il nostro genoma. Parliamo di cultura in senso ampio: le conoscenze, le pratiche, le tecnologie che gli uomini impiegano e condividono per adattarsi a un ambiente.
Queste realtà esistono solo perché i nostri tratti genetici si sono evoluti in modo che potessimo crearle e rimodellarle di continuo. Ma allo stesso modo la cultura può indirizzare la nostra evoluzione genetica, a volte in maniera sorprendentemente rapida e diretta.
I segni di questa dinamica sono visibili in molti comportamenti umani, e in particolare nell’esplorazione. La prima volta che un nostro antenato usò una pietra per spaccare una noce, il suo gesto fondò una cultura che potrebbe aver selezionato i geni che favoriscono destrezza e immaginazione, e la diffusione di queste facoltà ha a sua volta accelerato lo sviluppo della cultura.
[Fonte http://www.nationalgeographic.it/].
[Fonte http://www.nationalgeographic.it/].
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