A sole 24 ore dallo storico voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha riconosciuto la Palestina come stato osservatore non-membro, il governo di Israele ha risposto autorizzando la costruzione di tremila nuove unità abitative in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, nonché accelerando le procedure per il rilascio di un altro migliaio di permessi per colonie considerate illegali da tutta la comunità internazionale.
La ritorsione di Tel Aviv rappresenta l’ennesimo esplicito tentativo di boicottare una soluzione di pace fondata su due stati e contribuisce ulteriormente a rendere pressoché impossibile la continuità territoriale palestinese.
Le aree di insediamento appena autorizzate da Netanyahu comprendono, tra l’altro, nuove abitazioni a Ma’ale Adumim, una località che separa Gerusalemme Est dal resto della Cisgiordania e la cui espansione complica notevolmente i collegamenti tra le città di Ramallah e Betlemme con i quartieri palestinesi di Gerusalemme Est. Ma’ale Adumim è il terzo più grande insediamento israeliano in Cisgiordania e ospita attualmente circa 40 mila coloni ebrei. In totale, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania vivono 500 mila coloni in più di cento insediamenti illegali.
La nuova iniziativa israeliana punta ad aggiungere un nuovo fatto compiuto sul terreno, così da rendere ancora più improbabile il raggiungimento di un eventuale accordo di pace per la creazione di uno stato palestinese entro i confini precedenti alla guerra dei Sei Giorni del 1967.
La comunità internazionale ha ancora una volta condannato quasi all’unanimità i nuovi insediamenti israeliani. Gli Stati Uniti nella giornata di venerdì hanno definito il piano di Netanyahu “controproducente” ai fini di una soluzione negoziata al conflitto mediorientale, anche se di fatto la reazione di Washington è stata sia nei toni che nelle azioni di gran lunga più pacata rispetto agli sforzi messi in atto per fare desistere il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), dal cercare il riconoscimento dell’ONU.
Il voto in gran parte simbolico e a larghissima maggioranza (138 favorevoli, 9 contrari e 41 astenuti) assicurato giovedì alla Palestina dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha mostrato nuovamente il totale isolamento internazionale degli Stati Uniti, assecondato solo da qualche sparuto alleato (Canada, Repubblica Ceca, Panama e quattro staterelli dell’Oceano Pacifico) nel difendere strenuamente l’occupazione israeliana e l’oppressione del popolo palestinese.
Nonostante questa realtà, i commenti della diplomazia americana al voto dell’Assemblea Generale sono stati molto duri ed hanno fatto riferimento alle complicazioni che si prospettano per i colloqui di pace. Decenni di negoziati con la supervisione statunitense, tuttavia, non hanno prodotto fin qui alcun risultato tangibile e hanno anzi consentito la progressiva conquista di nuovi territori palestinesi da parte di Israele.
La formale, sostanzialmente vuota condanna di Washington dei più recenti insediamenti autorizzati dal governo di estrema destra di Netanyahu, inoltre, si accompagna a due proposte di legge presentate al Senato di Washington che sono esse stesse autentiche ritorsioni contro il voto dell’ONU.
La prima è firmata dal senatore repubblicano dello Utah, Orrin Hatch, e chiede addirittura la soppressione di tutti i finanziamenti americani alle Nazioni Unite. La seconda, opera dello sforzo di due senatori repubblicani e due democratici, è invece un emendamento allo stanziamento di fondi al Dipartimento della Difesa e prevede lo stop al denaro destinato all’Autorità Palestinese in caso quest’ultima intenda avviare procedimenti legali contro Israele presso il Tribunale Penale Internazionale.
Dopo il voto di giovedì scorso, peraltro, nonostante qualche festeggiamento nei territori palestinesi, ciò che prevale è un diffuso scetticismo e la consapevolezza che le condizioni di vita della popolazione sotto l’occupazione israeliana non cambieranno di molto nel prossimo futuro.
Il riconoscimento della Palestina, garantito anche da paesi occidentali considerati fedeli alleati di Israele, è servito soprattutto a risollevare in qualche modo il prestigio di Abbas, la cui rilevanza è stata virtualmente cancellata, a favore di Hamas, durante il recente assalto di Tel Aviv contro Gaza che ha fatto 165 vittime tra la popolazione della striscia.
Anche i paesi che hanno votato a favore del riconoscimento o che si sono astenuti, come Francia e Gran Bretagna, si sono adoperati poi per ottenere rassicurazioni da parte dell’Autorità Palestinese a non intraprendere azioni legali contro membri del governo o delle forze armate israeliane presso il Tribunale Penale Internazionale. Ciò significa che questi governi intendono comunque continuare a garantire la totale impunità dei crimini di Israele nell’occupazione e negli attacchi contro il popolo palestinese.
L’iniziativa dell’Autorità Palestinese, in definitiva, ha ben poco a che vedere con la liberazione della Palestina quanto piuttosto con una strategia per rimettere in sesto il proprio leader e la sua cerchia di potere. Infatti, come ha scritto qualche giorno fa sul Guardian il docente di politica araba presso la Columbia University di New York, Joseph Massad, il riconoscimento dell’ONU ha di fatto “geograficamente ridotto lo stato palestinese dal 43% della Palestina storica previsto dalla ripartizione” del 29 novembre 1947 “a meno del 18%” odierno. Il voto ONU, perciò, assicura infine ai “coloni ebrei e ai loro discendenti l’80-90% della Palestina, lasciando il resto agli abitanti nativi, e rischia di cancellare il diritto dei profughi al ritorno nelle proprie terre”.
di Michele Paris
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