Da quando, nel 1957, fu lanciato lo Sputnik, migliaia di missioni spaziali si sono succedute con più di 4 mila satelliti messi in orbita, producendo il rilascio nello spazio di centinaia di migliaia di detriti, con dimensioni vanno da quelle di un granello di sabbia a quelle di un autobus.
Alcuni sono divenuti famosi, come la fotocamera persa da Michael Collins durante la missione Gemini 10, ma la maggior parte ha origini molto meno suggestive. Si tratta di satelliti dismessi o esplosi, di resti di motori e serbatoi, di parti di navette, ma tutti con un elemento in comune: la pericolosità.
Alcuni sono divenuti famosi, come la fotocamera persa da Michael Collins durante la missione Gemini 10, ma la maggior parte ha origini molto meno suggestive. Si tratta di satelliti dismessi o esplosi, di resti di motori e serbatoi, di parti di navette, ma tutti con un elemento in comune: la pericolosità.
Questi detriti viaggiano attorno alla Terra a una velocità fino a 20 volte superiore a quella di un proiettile. Così anche frammenti con dimensioni di un centimetro possono avere effetti devastanti in caso d’impatto con i satelliti operativi e in particolare con la Stazione Spaziale Internazionale.
Se la gravità porta questi pezzi verso orbite sempre più basse, fino a farli interagire con l’atmosfera, dove, nella stragrande maggioranza dei casi, bruciano, la permanenza in orbita è tanto maggiore quanto più elevata è l’altezza di partenza: così, se i detriti prodotti a meno di 600 km rientrano a Terra in pochi anni, quelli rilasciati oltre i mille km possono restare in orbita per secoli.
La stima è di decine di migliaia di oggetti potenzialmente distruttivi, il cui numero sta aumentando. La situazione è diventata così pericolosa che Nasa, Esa e le principali agenzie spaziali mondiali stanno investendo grandi risorse in «programmi dedicati». L’Esa, per esempio, ha avviato un programma per la sicurezza spaziale («Ssa», «Space situational awareness»), con l’obiettivo di realizzare una rete di monitoraggio basata su sensori e radar.
Con le tecnologie oggi disponibili è impensabile ripulire lo spazio e, quindi, non resta che cercare di scoprire la maggior parte dei «pezzi», determinarne l’orbita e mantenerli sotto sorveglianza per consentire che le future missioni non corrano il rischio di collisioni accidentali.
Ma come osservare migliaia di corpuscoli distanti centinaia o migliaia di km in modo rapido ed efficace? Un team italiano, composto da ricercatori dell’Università di Pisa, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, dell’Istituto di Fisica Applicata del Cnr, diSpaceDyS (spin-off dell’Ateneo pisano, coordinato da Compagnia Generale per lo Spazio Spa), ha trovato la soluzione al problema, ideando un rivoluzionario telescopio a grandissimo campo, che riproduce l’architettura dell’occhio della mosca. [Fonte].
Questo «prodigio» dell’ottica avanzata è stato possibile grazie alle intuizioni degli esperti del gruppo, che si sono ispirati agli occhi degli insetti, formati da tanti piccoli occhi semplici, ognuno dei quali osserva una porzione del campo visivo. Le immagini fornite da ogni occhio vengono poi composte come le tessere di un puzzle, ottenendo l’immagine continua e ad altissima definizione di un campo di vista molto ampio.
Questa idea rivoluzionaria ha portato il team coordinato da Cgs all’ideazione di una nuova generazione di telescopi, definiti «Fly-eye telescope», in grado di osservare vaste porzioni di cielo: il prototipo potrà essere realizzato già entro l’inizio del 2014 e si fotograferanno così rapidamente in una notte grandi porzioni di cielo (operazione pressoché impossibile con i telescopi oggi disponibili) e si inizierà la caccia alla spazzatura spaziale.
Fondamentali sono le tecniche di calcolo orbitale messe a punto dai ricercatori dell’Università di Pisa: unici al mondo, riescono con metodi matematici di loro ideazione a calcolare l’orbita di un determinato detrito con due sole osservazioni e, così, diventerà possibile una più efficiente catalogazione dei detriti spaziali.
Ora per l’Italia si apre una possibilità straordinaria, quella di diventare un punto di riferimento in un settore altamente strategico come quello della sicurezza spaziale. Ma servono i giusti «sponsors» (a cominciare dall’Asi) e i necessari fondi: l’occasione strategica sarà il 20 novembre, quando a Caserta si riuniranno i ministri della Ricerca dei Paesi europei che collaborano nell’Esa.
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